DA BELLI A PASOLINI: L’ANTILINGUA COME EPICA E DENUNCIA PARADOSSALE

Il ritorno al grugnito.

Riproporre questioni linguistiche in un periodo di radicalizzato disinteresse verso il parlare, tanto accentuato da arrivare al punto di cancellare la funzione stessa della comunicazione, può sembrare pedante e vano esercizio, ma può anche essere un utile tentativo di riaccendere qualche curiosità e qualche idea della necessità di un idioma proprio, aderente agli aspetti determinanti della mentalità di un gruppo umano, del suo costume e delle sue tendenze, quale caratteristica identitaria più peculiare della razza stessa, che per niente influisce fuori del corpo.

Ormai la cura, costi quel che costi, di far le cose sempre più di fretta pur senza reale vantaggio nella sostanza del risultato per cui la cosa si fa, rende soltanto la soddisfazione di battere sul tempo la natura, alla stregua di un primato della macchina che umilia l’uomo finché c’è corrente. Ciò fa nascere il gusto di incorporarsi nella macchina stessa, e farsi parte attiva con l’invenzione di codici abbreviativi senza tonalità né sfumature, né tantomeno figure, scelte stilistiche, e il resto con cui la lingua aderisce al pensiero e si arricchisce di mezzi utili ad esprimerlo. Tale cupio dissolvi relazionale ha le sue ragioni, solo in parte residua derivanti dagli efficaci mezzi di soppressione della parola offerti dall’odierna tecnologia, giacché è proprio il degrado dei sentimenti, delle emozioni e delle aspirazioni che consente e conduce a delegare alle macchine anche ciò che da esse ci differenzia in misura essenziale. Perché esistano lingua e comunicazione, è necessario che s’abbia qualcosa da dire, perfino da scoprire o da sospettare nel fare dei filosofi e dei poeti, con conseguente voglia di ascoltare: ebbene chi direbbe che si disponga ancora di una qualche materia prima? L’informatica è un’arma ed un’energia scoppiata in mano ad esseri primitivi incapaci di intendere e di volere nell’ambito del mondo esistenziale. In mezzo alle tante finzioni surrogatorie della vita reale, il ritorno al grugnito dei suoni e delle icone preverbali è il segnale più chiaro d’involuzione della specie, e lo si vuole sottolineare, per confronto perdente, con un esempio ormai familiare a tutti: la vita di plebi che solo per via del parlare mostrano le radici e le ragioni di gruppi umani senza sovrastrutture, ottentotti, direbbe Nievo, capaci di darsi una lingua, già al loro livello, più viva e attiva di quella dei parigini. Nello specifico, ove non c’è lingua, non può neppure concepirsi antilingua, il che significa che in ogni caso, se ci si vuole intendere davvero, bisogna scambiarsi i pensieri con le parole, e non con le formule e i glifi, uguali per tutti, di mezzi di servizio che, in quanto tali, non possono che essere sordi ed anaffettivi.

La pertinenza dell’esempio di Belli e Pasolini prende forza anche dal fatto che entrambi vivono delle contraddizioni intrinseche nella loro passione: Belli è affascinato dalla potenza dell’eloquio plebeo che poi non esita a ributtare in faccia a chi lo frequenta, dando per giunta ordine, all’ultimo momento di vita, di distruggere il frutto delle sue fatiche; Pasolini esalta la vitalità della gente di borgata ma nello stesso tempo ne mostra l’abiezione in icastiche immagini senza commento, soprattutto nei film di cui Belli non si poté giovare. Tutto ciò nel caso in questione è compreso e compresso nello sconcio della lingua nazionale, e per avvertirlo appieno nella sua genesi e nella sua evoluzione, genuina e spuria, è necessario porsi nella condizione di un romano del genere considerato, sul piano, almeno linguistico, puramente istintuale, disposto dalla filogenesi e dall’imprinting(1). È solo per questo che gli ormai rarissimi parlanti sono in grado di distinguere e partecipare fisicamente ai modelli sonori in cui Roma è stata attendibilmente rappresentata, ora che il dialetto romano, sebbene esausto, è stato come tale costruito a suo tempo da Trilussa e Pascarella.

I versanti linguistici di Belli e di Pasolini hanno dunque in comune il fatto di costituire due esempi di parlata plebea raccolti nello stesso territorio in differenti situazioni storico-sociali che si richiamano fra loro soltanto per la caratteristica dello scempio verbale, attuato in diverse direzioni, certamente obbligato ma anche connaturato in chiunque debba esprimere il suo dissenso o solo il suo distacco da convenzioni totalmente nemiche. Il che anche da questo punto di vista si contrappone provocatoriamente all’omologazione che va dai media alla cultura istituzionalizzata, alla politica, giù giù fino ai residui linguistici di abbreviazioni, sfondoni e grugniti, di una lingua internazionale a tutti comprensibile in quanto paurosamente sulla soglia dell’automatismo e del nulla.

Belli e Pasolini: continuità di simpatia e raffigurazione.

l fatto che Dante, nel suo De vulgari eloquentia, già definisse come tristiloquium la parlata romana, quando era appena sconcio del latino e non aveva ancora maturato quegli elementi fonici e lessicali che poi ne avrebbero stigmatizzato il carattere ruvido e burbanzoso per cui non riuscì mai lingua regionale, probabilmente indica che il Poeta si riferisse a effetti della pronuncia, della cadenza e della recitazione, che erano specchio di un’originaria e ben evidenziata disposizione della plebe romana. Questo essenziale aspetto della lingua restò sempre emblematico dell’ambiente, vieppiù perfezionandosi nel tempo, accolto e tramandato in letteratura in modi e a scopi molto differenti, fra i quali qui vogliamo considerare, per peculiari analogie d’intenti e di procedimenti d’ordine estetico, quelli che si rilevano nei testi del Belli e di Pierpaolo Pasolini, che, a distanza di un secolo l’un dall’altro, scrivono, in sostanziale continuità di simpatia e di raffigurazione, di una lingua e una gente che son tutt’uno, non avendo la gente altro che la lingua come mezzo di azione e, di conseguenza, come prova — o illusione — di identità. Procediamo a un confronto.
La definitiva valorizzazione del Belli, finalmente poeta etico e civile, ha fatto sí che ormai se ne possa esporre l’immagine completa e a tutto tondo: se infatti per tutto il periodo dei papi-re (nel caso Cappellari e Mastai Ferretti) le ragioni dell’emarginazione e della riduzione del Belli a poetastro comico e licenzioso (l’autore dei Sonetti, naturalmente) si scorgono ben nette nei contenuti e al tempo stesso nella provocazione di forme dissacranti, volgari e oscene, nel tempo che corre dal 1870 alla pubblicazione degli studi di Giorgio Vigolo nel 1952, non sono i motivi politici del passato a isolare l’autore, ma il lessico procace e perentorio che ormai da tutti viene considerato necessario ad un dire che esprime il genio e il severo rigore intellettuale di un artista di altissima qualità.

Nel Belli tutto è lingua, tutto si brucia per divenire magma originario di materia verbale, dotato di forza ostensiva immediata e diretta di una realtà barbarica cui somiglia, e al contempo si fa canto galoppante, martellamento ritmico su bronzo che attrae la psiche allo stadio precoscienziale, ai primordi indistinti delle passioni, a un pathos ineludibile di natura che solo l’arte attinge e governa in modo da renderlo leggibile alla coscienza. E l’intenzione esplicita del poeta ci mostra il parlare prescelto in funzione esclusiva, scartando sia qualunque forma ufficiale che ogni altra meno sconcia modalità, non solo come mezzi insufficienti a una resa adeguata, ma anche e soprattutto come strumenti di vera e propria, odiosa contraffazione, ingannevoli «a priori» se utilizzati rispetto alla specifica esigenza di fare un monumento alla plebe romana, in cui la plebe stessa si presentasse e si specchiasse fino all’orrore di sé.

Il Belli vuole esporre, non commentare, ed espone la plebe esponendo lingua, la lingua più rozza possibile che si trovi a testimoniare la vita di un genere umano che la possa parlare (o meglio si direbbe tirare addosso, vomitare, sputare e via discorrendo): una registrazione della natura come sarebbe il verso di un animale, l’eco roca di un rantolo, di un respiro, filato in versi che, nella cadenza etnica endecasillaba del parlare romano, paiono giustapporsi, farsi da soli. E un parlare di classe, non un dialetto dovuto a qualche pattern culturale come i tanti vernacoli che hanno il crisma di un comune sentire municipale, e in questo ricorso a una lingua che non è sua, e in quanto tale meglio predisposta a trasformarsi in pura materia sonora nelle mani al poeta, il Belli agisce in una posizione che deve ritenersi privilegiata, maneggiando in funzione significante le parole così come uno scultore lavora il marmo in forme compatte e continue, libero dunque — il Belli — dalle ipoteche che gravano sull’uso del dialetto come «lingua del cuore».

Per tale valenza la lingua speciale del Belli, sconciata due volte rispetto ad un italiano onde si generava, per corruzione, quel dialetto ben poco individuato, come corpo linguistico strutturato, che a Roma si poteva considerare un fiorentino messo in bocca romana (data la forte toscanizzazione subita dal dialetto urbano medio), si definisce meglio come antilingua, espressione felice che è stata usata, nel libro Belli epico e popolare, da Raniero Sabarini.

Se fu Giorgio Vigolo il primo ad aprire la strada ad una lettura adeguata del nostro poeta, fu infatti proprio Sabarini l’ultimo a sviscerare, con novità e sapore di argomenti, gli aspetti che fanno del Belli un autore europeo e rivoluzionario di gran rilievo, ideale continuatore della letteratura democratica dell’illuminismo, precursore dello straniamento di Brecht e dell’ironia di frequentatore di una comicità intrinseca all’impiego dell’antilingua, con risultati di critica complessiva della cultura e dell’ideologia: specillando nel corpo dell’antilingua, Sabarini si mostra, come già il Belli, biclasse e bilingue per via di speciale empatia, in quella condizione unica e sola che permette di entrare con competenza all’interno di un dire paradossale, di un fare linguistico tutto performativo, immagine sonora di un ambiente che non si può annunciare in altro modo, perché altro non ha che l’interiezione — di cui l’imprecazione è una variante — per avvisare della sua sofferenza, che nella fattispecie sostituisce — o, se paia piú giusto, costituisce — esistenza e presenza.

L’antilingua: Belli.

Che cos’è l’antilingua? L’opposto della lingua, evidentemente; e, come questa serve a veicolare valori organici sedimentati e condivisi in una società, attraversandone tutte le classi in un continuum culturale omogeneo, cosí quella serve a negarli, a rappresentare solo stati umorali, che inevitabilmente sono estremi, aggressivi e amari, latori di cinismo e istinto animale, risarciti soltanto da tutti i gradi del sarcasmo e l’osceno, lo spazio vitale del comico che accompagna la continua denuncia come unica reazione esistenziale a forze minacciose incontrollabili. La lingua copre vizi e difende interessi che la plebe non ha; l’antilingua è la prova, la stessa voce della disperazione e del dolore, un rantolo superbo, rassegnato ma mai riducibile a qualche consenso genuino.

Quest’antilingua, dunque, non è un dialetto (né perciò è autore dialettale il Belli), ma — si è detto — è una voce, raccolta dal poeta come folclore (di tipo urbano — è chiaro — e del tutto alieno da ogni visione romantica del fenomeno), nel modo in cui da altri si è proceduto a inventariare il canto popolare, quello più puro, senza età né autore, e spesso senza luogo o testo certo, che dilata all’intero mondo dei vinti le verità intuite nell’ignoranza. Non per nulla lo stesso Gioacchino Belli definí la favella del suo poema idioma romanesco e non romano, idiotismo continuo, effetto di abnorme sconciatura, deformazione instabile e arbitraria fermata solo nella registrazione della pagina scritta. Cosí, catturata la fluida e incisiva parlata dei luoghi più sordidi e ignobili della città, è in grado di esibire una sua «figura «in cui convergono potentemente significato e significante: le descrizioni sono dirette e corpose, i giudizi sommari, espressi con nettezza e brevità, convenzioni e finzioni sono aggredite dall’irruzione dell’oscenità e dell’irriverenza piú volgari che rompono le attese precipitando l’ascoltatore verso uno straniamento in grado di condurre al contatto intimo con
la realtà sottesa alle parole; e d’altro canto dure allitterazioni, amalgami serrati e vigorosi di sibilanti e suoni rotacizzati con effetti aspri e rochi, in traduzione acustica degli ambienti e degli umori guasti della città, dove pur «antivive» la maggior parte degli abitanti, i malestanti dell’Urbe. Di tale figura si può indovinare il colore: un livido grigio diffuso, talvolta avvivato da lampi sanguigni evocati indirettamente, soprattutto da vesti e da processioni (mettiamo il rosso che c’è in «Cardinale «). Sono toni barbarici, primordiali, con rimandi all’inconscio e, in definitiva, epici e popolari — si diceva —, intendendosi l’epica in quella forma capovolta e istintiva attinente a gruppi che vivono senza essere mai soggetti della propria avventura, anche per ciò avvertita come sventura.
Tutto questo, che è frutto d’arte squisita, si potrebbe riuscire a verificare in qualunque sonetto, ma forse nessuno sarebbe efficace allo scopo quanto il seguente, che si riferisce alla prima delle manifestazioni sanfediste organizzate in risposta ai moti popolari liberali del 12 febbraio 1831: circa quattromila pezzenti furono fatti scendere, il giorno 21, dal rione Monti a piazza San Pietro, concedendo a una loro rappresentanza di trasportare in processione il papa. Il sonetto — per dirla con Sabarini — con un semplice elenco di soprannomi e una terzina che ne mostra un gesto, si fa ad un tempo «compiuto trattato di storia, di sociologia e di psicologia politica collettiva»:

 

UNO MEJJO DELL’ANTRO

(n. 379, 27 gennaio 1832)
Miodine, Checcaccio, Gurgumella,
Cacasangue, Dograzzia, Finocchietto,
Scanna, Bebberebbè, Roscio, Panzella,
Palagrossa, Codone, Merluzzetto,
Cacaritto, Ciosciò, Sgorgio, Trippella,
Rinzo, Sturbalaluna, Pidocchietto,
Puntattacchi, Freggnone, Gammardella,
Sciriàco, Lecchestrèfina, er Bojetto,
Manfredonio, Chichí, Chiappa, Picozza
Grillo, Chiodo, Tribbuzzio, Spaccarapa,
Fregassecco, er Ruffiano e
Mastr’Ingozza.
Cuesti sò li cristiani, sora crapa,
c’a Ssampietro stacconno la carozza,
e se portonno in priscissione er Papa.

 

L’ostensione dei nomi in fitta sequenza, il suono torbido delle parole e i rimandi a difetti e ad atteggiamenti tipici della feccia della città, raggiungono d’un colpo, agli ultimi versi, «in un pieno d’orchestra beethoveniano», effetti espressionistici da morsura nel richiamare le deformazioni condensate nei tipi allo stesso modo che in tutte le strutture del Potere. Ma la plebe romana, se pure è omogenea per vizi e disperazione, per miseria orgogliosa e vitalità irridente alle cose degli uomini in quanto tali, non lo è per niente nelle idee politiche e religiose, che a Roma han-no da essere le stesse. La plebe si riscontra, attraverso il Belli, distribuita in tre classi sociali, cui corrispondono altrettanti modi di pensare e di agire nel breve spazio che è concesso alle piccole libertà.
Emergono dai versi del poeta tre statuti mentali: uno di tipo anarchico ed eversivo, coincidente grosso modo con i gruppi artigiani; un altro improntato ad un sanfedismo violento e sanguinario, corrispondente al sottoproletariato; ed uno intermedio, sostanzialmente reazionario e bigotto, fiancheggiatore passivo e mugugnante del sistema di potere da cui dipende e che corrisponde allo strato dei servitori. Ciò spiega i contrastanti giudizi espressi, con pari lapidaria risolutezza, nei sonetti che tocchino i temi politico-religiosi, perché non è il poeta a pronunciarli, né una stessa persona rappresentata, mentre per tutti valgono, ovviamente, le affermazioni gnomiche generali.

 

LI DOTTORI
(n. 181, Terni, 6 ottobre 1831)
Sta somarajja che ssa scrive e legge,
sti teòlichi e st’antreggente dotte,
saría mejjo s’annassino a fà fotte
coli su’ libbri, a ssono de scorregge.

Oh vvedi, cristo, sí cche bbella legge!
Dà le corna a li spigoli la notte:
Sudà l’istate come pperacotte;
E l’invernop’er freddo nun arregge!
Er vento bbutta ggiú, D’acqua t’abbagna,
Te cosce er zole; e,ppe ddeppiú malanno,
Senza er príffete un cazzo che se maggna!
E eco ttutti li studi che sse sanno,
A sta poca freggnaccia de magaggna
Nun ciànno mai da rimedià nun ciànno.

Ed ecco un esempio di umore protestatario di ardita e violentissima intensità:

LI DU’ GGENERI UMANI
(n. 1169, 7 aprile 1834)
Noi, se sa, ar monnosemo ussciti fori
Impastati de mmerda e de monnezza.
Er merito, er decoro e la grannezza
Sò tutta mercanzia de li siggnori.
A ssú Eccellenza, a ssú Maestà, a ssú artezza
Fumi, patacche, titoli e sprennori;
E a nnoantri attiggiani e servitori
Erbastone, l’imbasto e la capezza.
Cristo creò le case e li palazzi
P’er Prencipe, er marchese e er cavajere,
E la terra pe nnoi facce de cazzi.
E cquanno morze in crosce, ebbe er penziere
De sparge, bontà ssua, fra ttanti strazzi,
Pe cquelli erzangue eppe nnoantri er ziere.

Un esempio bestiale di sanfedismo

LA RILIGGIONE VERA (n. 727, Roma, 12 gennaio 1833):

L’avvanti er Turco, l’avvanti er Giudio,
Un’antra riliggione com’e nnoi,
Da potesse maggnà Ddominiddio!

 

Incredibile, poi, per la somiglianza con certa propaganda anticomunista durante la «guerra fredda»,

 

ER GOVERNO DE LI
GGIACUBBINI
(n. 1160, 5 aprile 1834)
Iddio ne guardi,Iddio neguardi, Checca,
Toccassi a ccommannà a li ggiacubbini:
Vederessi una razza d’assassini
Peggio assai de li Turchi de la Mecca.
Pe aringrassasse la panzaccia secca
Assetata e affamata de cuadrini,
Vederessi mannà cco li facchini
Li calisci de Ddio tutti a la zecca.
Vederessi sta manica de ladri
Raschià ddrent’a le cchiese der Zignore
L’oro da le cornisce de li quadri.
Vederessi strappà senza rosore
Li fijji da le bbraccia delipadri,
Che saría mejjo de strappajje er core.

E infine una sentenza senza confini, paurosamente attuale nei nostri lidi

L’istoria romana,

(n. 908, Roma, 17 febbraio
1833):
Bast’a ssapè cc’oggni donna èputtana,
E Il’ommini una manica de ladri,
Ecco imparata l’istoria romana.

E questa, addirittura imbarazzante, per
le stesse ragioni da

La lègge,

(n. 1173, 8 aprile 1834):

La mi’ proposizzione è stata questa,
Ch’un ladro che tiè a mezzo chi commanna
E cià ddonne che s’arzino la vesta,
Rubbassi er palazzon de Propaganna,
Troverete er cazzaccio che l’arresta,
Ma nun trovate mai chi lo condanna.

 

Da quanto si è cercato di illustrare, buoni ultimi là dove tanto ingegno è già stato applicato, risulta una cosa che vale la pena di dire per quella situazione di sprovveduta sudditanza linguistica che si nota nell’attuale ma non certo nuova ed innocente pseudopoesia romanesca: il Belli non si presta come esempio e modello di lingua, per il semplice fatto che non ha lingua, non l’ha trovata. Usare l’antilingua come lingua è contraddizione in termini troppo grande perché possa sfuggire a chi è in buona fede, nonsenso logico e equivoco culturale. In piú non vale come vocabolario, poiché l’inventario dei termini è riferito a uomini e ad ambienti troppo diversi da chi appunto ora sappia leggere e scrivere; gran parte del lessico resta, naturalmente, incomprensibile alla nostra gente e buona parte delle deformazioni è tratta da pronunce di aggregati non sempre assimilati neanche allo sconcio (vedi la doppia erre viterbese), quando non sono inventati od accentuati per ottenere effetti più scandalosi. Neppure la grafia serve a qualcosa: il Belli si sforza di rendere una pronuncia che immagina difficile e sconosciuta, mentre per noi che abbiamo una tradizione dialettale acquisita (cioè abbiamo lingua), può generare solo confusione nella lettura per la ridondanza di segni affatto inutili a chi sa bene come si deve pronunciare il tutto. Lo scrittore che scrive userà una lingua: è questa, semmai, la lezione che ci offre il poeta, con cui concordiamo per quanto facciamo parte di una koiné linguistica e culturale nell’alveo di un continuum di civiltà, salvo un’ultima cosa, la più allarmante. La svolta antropologica che ha distrutto l’individuo e i valori e ha ridotto il mondo a un mercato totale ove le finzioni vigono e valgono tanto che la realtà è percepita nella finzione vincente, ha capovolto i ruoli e i rapporti umani: l’intelligenza non è che un intralcio al consumo, e tutto ciò che vive grazie ad essa è zavorra ingombrante che non si vende, e ciò che non si vende è da eliminare. La Roma del Belli ora è il mondo, e la plebe son gli uomini di cultura; la lingua vera, organica e trasversale, è solo quella della pubblicità, degli slogan politici e canzonettistici, tutti riassunti nella televisione e nei giornali imposti con i profumi. L’antilingua è la lingua. La lingua degli artisti e dei filosofi, perfino quella neutra degli scienziati, e ogni altra riferibile ai valori, ormai sono antilingua a tutti gli effetti, non più come espressione di un’impotenza che pur esiste e umilia sangue e pensiero, ma come segno di una condizione che nell’indifferenza generale ne pone gli autori in funzione di emarginati, impegnati soltanto a testimoniare la non condivisione del misfatto, né piú né meno che se si imprecasse contro un destino da ultime «facce de cazzi». Questo potrebbe dire Pasolini se oggi vedesse a che punto sono le cose, lui che si preoccupava della scomparsa della passione, ovunque custodita, quale segno e sostegno di umanità.

L’antilingua: Pasolini.

Come il Belli, anche Pasolini subí l’incomprensione dei contemporanei, un po’ per le stesse ragioni di «pruderie» dovute appunto a rappresentazioni sgradevoli e non certo edificanti di costume e di lingua, un po’ — cosa piú grave e decisiva — per una straordinaria, dato il momento, libertà di giudizio, che non soddisfaceva (né soddisfa) la cultura imperante in una pretesa di adesione ideologica totalmente «organica»: piegata a esigenze di parte senza riserve. Ma, per poter parlare di Pasolini, è necessario riconfigurare lo sfondo ambientale (fisico e politico) e il tessuto sociale di
un’altra Roma, tuttavia interpretabile con strumenti di osservazione simili a quelli del Belli, per via di aspetti omologhi, equivalenti, ravvisabili anche nella struttura della nuova città; proprio per quanto — malgrado un’ideologia e una disposizione omosessuale a ingombrare lo sguardo — Pasolini riesce a tenere il passo con l’empatia e la presa diretta del Belli sulla realtà più torbida e tra-
scurata, interpretando il verso negativo dell’immagine esposta della città, si muove in dimensione non provinciale, fra i pochi che si possono definire di livello europeo, e ciò si deve in primis all’attenzione rivolta a quel parlare primitivo che, fino a quando si può ipotizzare l’esistenza di gente adeguata al caso, non può non presentarsi come anti-lingua. In effetti la gente delle borgate, mutatis mutandis, vale la plebe del Belli, ed esibisce lo stesso squallore di vita, inteso in ogni senso e a disonore sia proprio che di tutto il resto del mondo. E — ancora alla stregua del Belli — senza giudizi, né commenti d’autore, ma solo col rilievo delle figure in un’intollerabile ostensione di miserie e vergogne, che — anche a considerarle come un destino degli uomini incapaci di giustizia — per qualche più studiata strategia si addensano continue e progressive nei luoghi deputati alla sofferenza, ben individuati e circoscritti, stilizzati nel corpo della città. In piú anche questa volta è determinante l’origine cattolica del pensiero, che aumenta l’orrore e lo scandalo personale, la ferita dell’anima costruita e nutrita di umore confessionale, e porta ad intendere il flusso della realtà con quella speciale finezza di percezione che solo un’attitudine metafisica, forse piú se latente, può consentire. Detto ciò escluderemo, debitamente, la piú ampia indagine circa i rapporti complessi e non pacifici intercorsi fra Pasolini e i vari rappresentanti delle élite al potere — fra i quali seppe pure ben collocarsi militando a sinistra — per definire l’area e l’aura «belliane» di certe pagine del nostro autore, e coglierne un valore speculativo sicuramente superordinato e piú intellettualmente produttivo di quello che il tempo potrà conservare agli scritti sui fatti e sui problemi del momento, benché storicamente illuminanti e talvolta profetici sul destino di una società senza speranza; per cui quei romanzi ambientati in periferia, quei film in bianco e nero con attori e panorami presi senza ritocchi dal mondo primitivo delle borgate, risultano completi e autosufficienti ad esprimere tutta la Weltanschauung e la passione intrinseca dell’autore, tanto da relegare in secondo piano, nel ruolo di commento e di spiegazione con esempi applicati ai fatti del giorno, ogni altro suo lavoro di intelligenza, fatta buona eccezione per la poesia. Rimane, si diceva, da ritracciare le coordinate storiche del paesaggio e il tessuto sociale: se al tempo del Belli non c’era separazione ben netta tra i luoghi abitati da ricchi e poveri, che stavano a contatto nella città, sovrapposti in strati, mentre fuori le mura era già campagna, al tempo di Pasolini ci sono i ghetti, spontaneamente sorti dopo la guerra intorno all’area metropolitana, occupati da gruppi extraregionali, con figli romani alla prima generazione, emarginati anche rispetto a quanti, indigeni dei luoghi, stanno in case più degne di tal nome e, normalmente, presentano discreta stabili-
tà di dimora e di vita. Diffusissima vi è la prostituzione, esercitata al chiuso dei tuguri o sulle strade ai bordi della città, e largamente sono praticati il furto, la rapina e l’accattonaggio (da realizzare — questo — nell’area urbana), e i lavori di chi vive onestamente sono umili e precari e, tuttavia, sufficienti a distinguere le persone. Si ozia moltissimo ai tavoli di osterie e bar di fortuna parlando di pastasciutta, di sesso e di chi è appena entrato o uscito dal sanatorio, il carcere, il manicomio. I ragazzini vanno scalzi e nudi se appena la stagione lo consente, piú per piacere che per indigenza. È questa la struttura delle borgate (talvolta incluse al centro della città), che si dilateranno in periferie di estesi e popolosi agglomerati, osceno frutto della ricostruzione, e finiranno presto per ospitare la maggior parte degli abitanti di Roma, stabilendo, via cinema all’italiana e volgarizzazione letteraria, l’immagine di un’Urbe più sciamannata di quanto, a cercar bene, si troverebbe. Anche in questi paraggi ci sono i fiori, garriscono le rondini e i ragazzi hanno gli occhi splendenti, e vi si effonde un alito di vita più struggente che altrove, tanto che Pasolini, ben nutrito di cultura umanistica e di severa formazione cattolica a fondamento di un sentire profondo e partecipante proprio all’uomo che sente il peso del mondo, ne raccoglie l’incanto, l’ambiguo invito a una gioia qualunque nella miseria e la minaccia della precarietà, con uno sguardo sguincio sui tramonti e sui volti segnati delle persone, quasi a scovare, in prospettive oblique, la vivida e accorante filigrana che autentica quel mondo, tutto il mondo, perché il resto è fasullo. Tutto questo è esibito da Pasolini, sotto specie di lingua, in quei lavori filmici e letterari che definiscono precisamente l’area «belliana» di una produzione molto più ampia che non contraddice ma estende, esercitandolo su altri temi, il pensiero di base: alludiamo ai romanzi Ragazzi di vita (del 1955) e Una vita violenta (del 1959), ed ai film Accattone (del ‘61), Mamma Roma (del ‘62) e La ricotta (del ‘63), vere e proprie fedeli trasposizioni gli uni degli altri in piena continuità di principi e di stile. Nel film e sulla pagina i personaggi hanno in comune, recitato e scritto, il parlare diretto, sí che può rilevarsi una «coincidenza», nell’ambito di quella che, per il resto, è invece «equivalenza» di linguaggio, quale
mediata rappresentazione che si realizza sempre in ostensioni più persuasive di ogni giudizio esplicito, e nei romanzi, dove la parola è strumento esclusivo, si vede che la lingua di borgata non vive solo in bocca ai personaggi, ma si dilata e invade anche la zona riservata all’autore che, descrivendo, si descrive e rivela tutti i suoi umori. Un po’ come nei classici film western, c’è un superpersonaggio in questi racconti, e va identificato nel paesaggio, che non è sfondo ma — scritto o filmato — risulta matrice e sostegno di una realtà che si dipana e articola nei dettagli della storia narrata, e qui l’autonomia interpretativa si fa più trasparente nell’autore, nondimeno disposto a quei solecismi e parole sconciate che sono, a un tempo, tessuto connettivo e asse portante di un gesto creativo che stiamo dicendo «belliano «, tale perché affidato in primo luogo, per una garantita necessità, a un parlare plebeo; ed il paesaggio è come i suoi occupanti, ne evoca l’esistenza negli orizzonti sconnessi, nei tramonti immalinconiti e in quegli scorci opachi e disordinati di stazzi aperti e di baraccamenti come preludi di dissoluzione, ma anche come segni di resistenza pervicace e ingegnosa. Osserviamo più da vicino questa versione misera, «borgatara», del parlare romano. La via più breve e forse più produttiva è quella del confronto con l’antilingua che si deve a Giuseppe Gioacchino Belli, e di cui si è spiegata tutta la resa. Il parlare plebeo non è più aggressivo, tagliente e sentenzioso, risonante, come quello proposto ed amplificato dal ritmo e dalla rima della poesia, ma, schiacciato nel modulo della prosa, risulta ora più povero, intisichito, alieno dal giudizio, e dal commento, fosse anche solo quello delle memorie e le ragioni piú ravvicinate: men che mai delle pubbliche decisioni. Vi è assente il lessico più colorito, accordato e attraente che pur si trova nel coevo dialetto della città, e vi si illanguidisce l’ironia, cosí come anche non vi si riscontra la fendente energia propria alla cadenza ed alla tornitura delle frasi del parlare di «Roma dentro le mura», di cui si ha bell’esempio nel Pasticciaccio di Carlo Emilio Gadda che non per niente si avvale del consiglio di un Mario Dell’Arco. L’eloquio pigro e liso della borgata è ritagliato, nella parlata romana, al livello più basso e meno creativo, intriso e innervato dal gergo di malavita, che pur ne è la parte più ostica e più espressiva. Ma il sermo ignobilis, in cui si realizza anche ora tutto il senso di una «scrittura «, non è ben dominato dall’autore, che mostra l’incertezza di chi parla per pura imitazione performativa, facendosi spiegare, all’occasione, che cosa significhi questa o quest’altra parola, e ne trascrive il suono in maniera tale che si capisca come quelle parole gli arrivino all’orecchio dall’esterno senza essere mai state nella sua bocca. Malgrado un’evidente incompetenza, è continuo lo sforzo di Pasolini di entrare in empatia per via di lingua, di sottolineare, come già il Belli, lo sconcio dello stesso dialetto puro, arrivando a inventarlo (mettiamo un impossibile Poricrinico), per conferire senso e significato di assoluta metafora alternativa a un’eresia linguistica radicale, che riassume sia i guasti della miseria che la dissacrazione dei valori. Cosí si spiegano tante stranezze e imprecisioni grafiche: per esempio c dura diventa g, e t intervocalica d, inversione sonora dovuta al fatto di non cogliere bene il tipico effetto di sorda strascicata in bocca romana (paragulo); si conserva, alla Belli, la doppia r (ghitarra); si scambia una vocale poco evidente (arruzzonito); si sporca di lingua, in minime scolature, il discorso plebeo, con esito espressivo disastroso (degli avviziati). Là dove era da scriversi Polliclinico, paraculo, chitara, aruzzunito, dell’avvizziati. Si arriva perfino ad iperbati impronunciabili, da scemo del villaggio, facendo dire «Me conoschi, che?», là dove si direbbe «E che me conosci?», nell’intento scoperto di potenziare un coefficiente di stravolgimento che è metafora spinta di ogni abiezione che l’ambiente prevede. Se invece è l’italiano a contaminarsi, come s’era accennato concetti fa, il risultato è alto, perché l’autore è in piena padronanza dei propri mezzi, e ordisce citazioni strutturali per un linguaggio sempre assai felice nel suo raffinatissimo impressionismo, a un passo — ma pur salvo — dalle forme che si definirebbero decadenti: ci piace la lunetta che tramonta locca locca nel cielo, così come il bel nuvolone bianco, coi riflessi d’acciaio, che s’era smandrappato e sbrindellato, anche se questa doppia notazione è ridondante, per non dire bolsa, poiché era sufficiente il secondo verbo, e — per la verità — anche piú appropriato. Insomma lo scrittore non è bilingue, nemmeno sulla pagina, e tuttavia si appaia al Belli per un’empatia mancata nella lingua ma raggiunta pienamente nei sensi e nel sentimento, conservando quel tanto di straniamento che l’epica presume a differenza dei generi più lievi e immedesimanti. I film paralleli, da questo lato, appaiono piú armonici e coesi, ma anche la pagina scritta di Pasolini, nei suoi preziosi excursus crepuscolari, in fondo non tradisce mai il progetto dal quale scaturisce e mai si presta a esigenze di ritmo differenti da quelle di una prosa in presa diretta, accidentata e senza accordature che ne facciano canto immediatamente.

Nulla di tutto quanto si è osservato osta davvero a trarre la conclusione che anche questa è antilingua, magnificata, ed elevata a simbolo di esistenza, di denuncia automatica e di abbrutita ma sicura e ostinata vitalità, già prima di ogni esplicita affermazione con cui l’autore poi rivelò un pensiero che lo legava per spirito e fratellanza a quell’umanità diseredata, primitiva e ignorante che, in quanto tale, è vergine, indenne dai guasti della cultura. È una verginità che si ritrova soltanto all’altro estremo del sapere: in mezzo c’è l’orthotes, l’educazione, all’uniformità e all’ipocrisia.
C’è in atto un genocidio antropologico, e anche per Pasolini l’ultimo fiato di quelle stremate e poetiche periferie è oggetto di un’epica come testimonianza e memoria di stirpe, di una gente selvatica ancora pregna se non d’altro di istinti non mascherati e di vizi scontati sulla sua pelle. Il confronto col resto è completamente affidato al lettore, spinto all’orrore per la degradazione di quei cavernicoli urbani che, come i virus, sopravvivono ovunque, e non possono scegliere altro destino. Epici sono dunque sia il canto del Belli, che esalta una plebe regale nella sua rabbia, nella trionfale interpretazione della sua fame e della sua impotenza, sia l’esangue rapporto di Pasolini sull’agonia dell’ultima specie umana. Ma in ambo i casi l’epica è stravolta, per cui anche la denuncia che ne deriva risulta parimenti paradossale. Non vi si scorge, infatti, un destinatario che non sia la coscienza, e in più i due scrittori ritorcono ogni vergogna contro le vittime-autori del loro male, con esempi — anche minimi — positivi (gli animali, i bambini…) seminati all’interno di un grande affresco, quasi che non bastasse l’accurata, puntuale e ossessiva perlustrazione di tutti i piani di una degradazione che non salva nessuno. La natura matrigna non può produrre che questo mondo, senza alternative: non altra è la sofferta convinzione che unisce due poeti illuminati da circostanze equivalenti in tema di scandalo assoluto e definitivo: il potere del papa come orizzonte metafisico della sopraffazione, e il culto del mercato e del consumo come denegazione dell’individuo, e pertanto del mondo da dirsi umano.

L’analogia è strettissima e si completa nel porsi in produttiva contraddizione con le parti ideali di appartenenza: il Marxismo e la Chiesa. Solo una cosa rende più radicali e più paradossali epica e denuncia nella forma proposta da Pasolini: la sua plebe morente segna la fine di una risorsa della biologia, l’entropia della specie. Ed ecco allora l’ultima vindemiatio: la realtà generale è contraddittoria, essenzialmente e in ogni sua dimensione, con forze di vita e di morte in perpetuo rapporto, e perciò è bisognosa della poesia per annunciarsi nella sua interezza. Quanto a misure pratiche di intervento a lenire le cose, ognuno può trovare, nella tragedia, sue ragioni di agire.

(1)Tuttavia il Poeta è privilegiato nell’immedesimarsi, e Vigolo nel caso è un esempio monumentale col suo magistrale lavoro rispetto ai Sonetti, ma questi visse a Roma tantissimi anni, lavorò presso un ministero e frequentò ambienti della leggera romana sulle rive del Tevere. Si potrà dire che anche Pasolini fece alcunché di simile alla Rota rossa, ma per contemplare i nudi dei giovinastri che si bagnavano nella marana, e con moventi analoghi s’inoltrava nello squallore di periferie che poi restituì con effetti d’arte.

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