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COME UNA POESIA È UN GIARDINO DI PAROLE
COSÌ UN GIARDINO È UNA POESIA DI PIANTE
Esergo scolpito dall’artista Tonino Santeusanio all’ingresso degli Horti Sangiulianei
“An inspiring quote about your vision”
Your Name
Occuparsi di piante – anche di una sola – significa comunque far giardino, poiché c’è un modo di considerarle, di guardarle in se stesse e in rapporto al resto e di farle reagire con le altre forme del mondo circostante oltre che con quelle della nostra memoria e immaginazione. Sapersi abbandonare a tal suggestione vuol dire appunto aprirsi a una conoscenza, a un’avventura senza inibizioni verso il disvelamento di spazi nuovi, non di utenza ma d’essere che, ovviamente, risulta sempre inteso e distribuito fra il soggetto e l’oggetto. E questo studio sull’autenticità si può dire or davvero privilegiato, in quanto esercitato su un oggetto fra la certezza della pura cosa e un’instabile ipotesi di persona, qual è la pianta nel suo divenire in richiamo congiunto alla terra e al cielo. Se si accetta che nulla come una pianta coagula, potenzia e restituisce le più ancestrali e vivide emozioni della luce, dell’acqua e della stagione, la delizia del fiore nonché del frutto, si è già capito come e perché da sempre il giardino è esistito e si è caricato di simboli affettivi e religiosi. Anche altri comincerebbe col precisare che giardino significa luogo chiuso, causa l’indo-germanico hart/gart che in proprio vale il prendere, l’afferrare (e quindi anche il cingere, il circondare), ma forse non porrebbe alcun problema sul fatto che s’intenda attivo o passivo. Recinto o recinzione, cinto o che cinge? Orto, corte e coorte (quest’ultimo da cheir, una manata), grad, grod, gorod e tanti altri nomi (che poi sono ovili, stalle e abitazioni) fan fortemente optare per il passivo, senza che possano cambiar le cose l’antico sassone gard (siepe, chiudenda) o l’altrettanto antico slavo gradu che dice – sì – muro, ma dice anche stalla, e ancora una volta città. Par proprio che si tratti di quel chiuso ove si metta ciò che vien protetto solo perché il suo spazio è recintato. Non è certo questione di poco conto se il Porcinai mette a riposare la sua tesi agronomica di giardino sull’idea che lo stesso protegga case, mentre invece si sa che protegge piante, o altri segni che siano, simboli ed echi, sempre al suo interno e sempre, pertanto, se stesso: il fatto che la casa stia in giardino è uno dei tanti accidenti dell’empiria, e può diventare importante soltanto quando, al pari di fontana pergola o pietra sia assorbita, cioè fusa in atto creativo, e allora, solo allora, sarà protetta, in quanto non distinta nel suo fine da quello che appartiene al giardino stesso. Se le case non solo ci sono sempre, ma quasi sempre son fatte anche prima del resto del giardino, non è un problema, anzi è uno stimolo ben vantaggioso se tutto avviene per evoluzione motivata e vissuta: altro che quiete di progettazione! Solo un concetto – autentico – di evoluzione comporta infatti consapevolezza di quel complesso andare di adattamenti di che è fatta la vita, e l’arte che la illumina e disvela: errori, correzioni e ripensamenti, splendori e opacità, opere incompiute, usure, attese, danni, nulla va omesso e nulla verrà meno se il giardino sarà emerso secondo la sua natura di opera storica e umana quanto più pura. La sensuale passione, il collezionismo, il lusso, il gusto della citazione non sono essenziali ma certo difficilmente scompaiono dal ricco immaginario dell’uomo colto e conscio del proprio ludus: sarà il versante critico in tal coscienza a provvedere a quello sventamento strutturale di tutti i particolari per cui un’opera è un’opera e non un mucchio di effetti magari piacevoli e produttivi. Qualcuno si vanta del fatto di non far disegni: e vorremmo vedere! Pure convinti, infatti, che il giardinaggio sia arte a pieno titolo, ravvisiamo che in esso sia qualcosa che lo tenga aderente alla vita in maniera unica, per cui non si realizza ma si avvia, come quando si educa una persona, nel paradosso di un procedimento che oggettiva un soggetto. Un’arte in cui l’astanza è provvisoria in maniera assoluta. Il giardino si muove per conto suo, reagisce, lo plasmiamo in congiunzione e in contrasto con forze che non sappiamo (e qui addio cause dello Stagirita, nonché ogni analogia con altre arti); non solo opera in corso ma soprattutto rimessa in gioco di strutture e idee: sposti una cosa e ti tocca accomodar tutto, vedi il sogno di un altro e ti rifà nuovo. Solo un progetto, dunque per il cliente (si dica catecumeno d’ora in poi): il contagio del vizio, il suggerimento dei meandri opachi della seduzione, e la rivelazione delle grazie, il contrappunto nella perdizione. Babilonia, le Esperidi, il Paradiso, il giardino è da sempre, sempre perduto, creabile e non controllabile, luogo umano e altrove, al tempo stesso, messaggero di sé soltanto, come è di poesia. Molto di più perciò che la vegetale invenzione di un dio: se davvero il giardino diviene tale, istituisce una categoria che supera la regola esaltando la creaturale libertà dell’uomo nel suo destino di stupore e cura. Il padreterno ha già fatto la parte che poteva competergli e a noi non resta che il commento festevole e sconvolgente di una figura tanto ben definita da escludere qualunque imitazione. No. Dio non si può eguagliare ma si deve, per quanto più si può, significare. Lavoro da poeti e fitosofi: tutto il resto o è natura o è verdura.
Esclusa la natura, ch’è dio stesso, e la verdura, suo lacerto molle buono a mangiarsi (con ogni sviamento del caso) al nostro fare d’angeli peccatori resta solo il giardino, che si scopre anche luogo di punizione ed esperienza espiatoria. Va intanto detto che il giardino è tale interamente solo per chi lo alleva di propria mano e tasca, istituendo un rapporto reciproco di esistenza fra creato e creatore. Esso comincia là dove finisce l’ingenuità del luogo ameno e tranquillo, costruito su moduli di natura non conosciuta e intesa come orpello o sgabello di un’anima bisognosa. Il non pacifico atto della creazione è invece sfida a tutte le condizioni del già saputo, visto e manipolato, una messa alla prova degli enti noti mediante selezioni e combinazioni inevitabilmente sperimentali. In questo procedere è chiara l’ambivalenza fra rispetto e infrazione della natura, con un corrispettivo psicologico per cui il giardino è insieme luogo sacro e recinto diabolico, ove, a un tempo, si esercita la pietas della cura e si affonda nel fascino tentatore, umido e afroso della dissoluzione. Luogo di fiori e vermi, di luci e d’ombre, trappola a dèi inebrianti e serenatori, il giardino realizza quell’equilibrio fra sensus apollineo e dionisiaco, fra forze di natura e di cultura, di cui dice Hensemberger per le rovine. Sia dunque il giardino fatto di enjambement, di sorprese botaniche, accostamenti, tenendo sempre a mente che le cose che nel giardino contano davvero sono gli spazi, gli intervalli dati agli occhi ed alla mente del lettore, risultati di cui i materiali usati sono in fondo supporto e punteggiatura. Con questo certo meglio si capisce come il giardino possa essere fatto anche col minimo di accorgimenti, perfino senza piante (i giapponesi…), perseguendo anzi in tale modalità l’espressione diretta della sua essenza, come diremmo dei versanti astratti di tant’arte moderna. Attenti, quindi, e senza disseminare piantemi, floremi e petremi senza costrutto, si mettano ai fusti abbracci di rampicanti, si creino simmetrie e dissimmetrie a controllo reciproco; si facciano angoli a muro e camere verdi; si esplorino con zelo, continuamente, le specie adattabili al luogo cui s’è obbligati; si favorisca il climax in qualche zona; ed infine la cosa fondamentale: riveli il giardino la cura in ogni sua parte, in segno non equivoco di riscatto dai rapimenti molli della passione. Quella cura del resto già postulata nel chiuso originario che è nel nome. La pace e l’inquietudine si danno nel tempo e nello spazio del giardino in un gioco sapiente di dissonanze distribuite e di risoluzioni nascoste e provvisorie: siamo giunti a un paradosso che raggiunge il centro della stessa iniziale definizione, scoprendo un luogo chiuso che ha da essere tale per aprirsi al suo interno senza confini quanto a rimandi, idee, significati. In tali opposizioni, e solo in queste, il giardino risulta significante. A questo punto è chiaro che ogni approccio non banale alle piante (e anche a tutto il resto) dev’esser sofico, se per sofia si intende il risultato di un sapere che renda saggi, pronti a conoscenza, ormai sotto la guida raccomandata di queste sopraccose/sottopersone che più d’ogni altro invitano pensare ciò che – unico – è degno d’esser pensato: l’essere che si pensa nell’ascolto del silenzio più ordito. Non c’è tanto silenzio nel più intenso dei panorami quanto in una chiesa, in un giardino, appunto, o in un cimitero. Sì. Perché è il grado di coinvolgimento a dar voce al silenzio, e la traccia dell’uomo completa i luoghi, rendendoli capaci di suggerire non più un ente facile e incerto da religione, ma un essere certo e difficile da poesia. Dunque è avvenuto che, tematizzando il mondo stesso per la via delle piante, il discorso è finito col risultare tale quale il giardino, così come il giardino necessitato sarà uguale al discorso: ecco il significato della frase stracitata a sproposito dal Candide di Voltaire: “Il faut cultiver notre jardin”… (da Palme e altro mondo, Roma