I SENSI NELLA POESIA DI LEOPARDI

Non pare azzardato affermare che la critica tradizionale, e la conseguente educazione scolare, si siano esercitate, intorno all’opera leopardiana, privilegiandone  gli aspetti speculativi a scapito di quelli propriamente estetici, sì d’aver generato e tenuto in piedi la nozione comune che del Poeta fa icona del dolore e della tristezza, fino a considerarlo, nei casi estremi, perdente in tutto e privo di quel mordente, passionale e incisivo, che un certo immaginario collettivo si aspetta dall’artista in ogni caso. Insomma, un esempio geniale di debolezza che in ultima analisi inviti alla rassegnazione. In realtà, a prescindere dalle considerazioni di Walter Binni, di Umberto Bosco e di altri studiosi che hanno contribuito a ricostituire la figura del  Nostro mettendone in luce la forza spirituale e la tempra virile, e a prescindere dall’inopportuna tentazione di esaltare l’immagine dell’autore oltre quanto  risulti direttamente dal valore del prodotto artistico, il Poeta si rivela, proprio nelle composizioni più romantiche, e a più alto indice di lirismo e di grazia, un essere umano non solo coi piedi per terra, ma  pieno anche  di una libido vivendi, espressa in maniera  sensuosa che, in quanto tale, non nasconde rimandi  all’ eccitazione che spinge  all’amore concreto dell’atto sessuale,  come avviene di solito nei  silenzi: quelli dei luoghi sacri, dei belvederi, dei prati periferici  e dei giardini, delle  ambagi protette da muri e volte, intrise di passato e riconosciute come nostre da sempre, metti le catacombe e le altre rovine che danno senso al nostro stesso respiro: il paesaggio tenta, e influisce sul corpo, occupando l’anima intera. Ma l’anima che può essere per un materialista, se non la coscienza del proprio essere materia? Vediamo come.  

Intanto per allestire una base storica e propedeutica a quanto in questa sede ipotizzeremo – che sia ben chiaro è volta a valorizzare ulteriormente l’immagine artistica del Poeta – rammentiamo qualcosa che normalmente è ignorato o taciuto.

Per quel che può valere citiamo il film Il giovane favoloso, di Mario Martone (2014), ove si espone il dramma di un individuo ossessionato dal sesso; e il necessariamente più attendibile libro dell’Antonelli Comunque anche Leopardi diceva le parolacce. In più Carlo Di Lieto ha messo in luce meglio d’ogni altro, spulciando nella vita di Leopardi in quel di Napoli a fianco dell’ambiguo sodale Ranieri, la palese e continua corsa del Nostro al piacere più sodo e scapicollato, espressa e soddisfatta a scorribande notturne in vista di massoniche agapi fraterne foriere di tutti i soccorsi del corpo sano, nessuno escluso.

Ci sono poi le lettere al fratello Carlo a testimoniarne  il carattere risoluto, ironico e smaliziato, e il linguaggio procace che non si ferma alla sola allusione, per farsi turpiloquio articolato, da uomo che chiama le cose col loro nome, senza il timore o il pudore  sempre presunti nei fragili e delicati: le donne dell’Urbe “non la danno (credetemi) se non con le infinite difficoltà che si provano negli altri paesi”, o anche “Ieri fui da Cancellieri, il qual è un coglione…” (da Roma, 6 dicembre, 1822); “son guarito e sano come un pesce, in grazia dell’aver fatto a modo mio, cioè di non aver usato un cazzo di medicamento” (da Roma, 5 febbraio 1823). C’è poi una lettera, in cui Carlo gli scrive da Recanati il 27 marzo 1823 per fargli sapere a proposito di una nuova amica: “In quanto al grado che occupa nel termometro del puttanesimo, ho stentato un poco ad accertarmene, e la mia opinione era che più in alto, ma ora mi sembra di aver conosciuto che non stia più avanti di Chiarina Spezioli: grande imprudenza, gran civetteria: perfetta cognizione di tutto quel che riguarda il cazzo e la fica…”. E, peggio, si evince anche che bestemmiasse, da quanto gli scrive, sempre il fratello Carlo, da Recanati il 12 dicembre 1822: “Sai una cosa? Io sento molto la tua assenza anche in ciò che non posso in tutto il giorno sfogarmi, in un linguaggio un poco libero, non ho uno con cui ragionando accaloratamente possa buttar giù i cazzi, i per D. ecc.”. Il che fa capire quanto a Leopardi piacesse far uso di espressioni di questo genere, che gli davano modo di destreggiarsi anche in mezzo a persone di basso conio, come le prostitute, le fantesche, i cuochi e i vari esemplari del popoletto ignobile e ingombrante, ben poco compatibile col poeta. Si era mostrato un ribelle già tentando la fuga dalla casa paterna; criticava e offendeva; era goloso: si abbandonava ai fritti, ai dolci e ai gelati, stilando viziosamente accurate liste dei cibi più graditi per la sua mensa.

Il Nostro, insomma, se la sa cavare anche fuori poesia.  Ciò umanizza e riduce a misura di tutti la figura di un uomo e di un poeta immerso nella carne del quotidiano, che porta indelebili i segni della passione intrinseca alla pietas naturale che è valore superstite e imperativo di un materialista integrale. Leopardi, quindi, è un edonista puro, che non fa conto né dell’aponia né dell’atarassia, avendo un concetto dinamico del piacere per cui non si può dire epicureo, ma semmai cirenaico, per quanto sia chiaro che un genio di tale statura non possa mai specchiarsi e ritrovarsi in un qualunque schema di pensiero: le sue liriche alate sono il buon frutto di un linguaggio mimetico ed elevato, escogitato per la sublimazione di quella disperata voglia di mondo che filigrana sempre la sua espressione. La nobilitazione del desiderio attraverso un lavoro di “poetizzazione” ridotto ormai a necessità psichica è in fondo lo scopo primario di ogni poesia, a conforto di tutti, o almeno, si voglia accettare, di questa poesia.

E  vieppiù pare che le suggestioni del corpo e della natura in Leopardi, pur non raggiungendo l’esplicita intensità  che hanno nella scrittura di un  D’Annunzio né l’abbandono  ai piaceri dell’allitterazione, dell’onomatopea e della rima che si rilevano in quella di un Pascoli, siano importanti e servano a porre il Nostro  nel novero  dei poeti nella cui opera più riccamente ed efficacemente si compongono gli elementi fondanti della poesia classica occidentale (e magari non solo): l’immagine, il suono, il ritmo ed il pensiero,  come equivalenti verbali di impressioni fisiche, in pro di una visione appassionata  che attribuisce a ogni oggetto un valore assoluto nell’ambito provvisorio della  passione. Qui ci sarebbe, per la precisione, da stabilire se il pensiero sia l’espressione di una realtà individuale a sé stante o il prodotto sintetico delle individuali percezioni sensoriali, come ora si ipotizza, tuttavia questa sistemazione di comodo, forse alquanto arbitraria ma produttiva, par che valga più d’altre ad apparecchiare la materia allo studio, offrendola all’analisi in strutture ravvisabili e pervie.

I sensi esplicitamente  chiamati in causa sono l’udito e la vista, sulla cui base, a partire da un althusseriano “verso le cose stesse”, si realizza il contatto con una realtà avvertita nella luce e nei suoni, sottesi, questi, anche a quella parola privilegiata che è canto, e i verbi udire e guardare – quest’ultimo potenziato in mirare come a indicare un’emozione intrinseca al percepire – son frequentissimi, per lo più coniugati all’indicativo, e in prima persona, (odo, odi, s’udia, miro, mirando, mirava…) e innervano l’intera opera lirica del Poeta, aprendo la via ogni volta a un significante connotativo che, nello sviluppo del verso, svela, completa e dilata all’infinito l’effetto emozionale dell’esperienza annunciata nel verbo. Così avviene  che già nell’Infinito il Poeta sieda mirando, come assorbendo, con sguardo voluttuoso, il palpito e  il respiro della vita che ferve silenziosamente intorno, e poco dopo oda stormire il vento, tra le piante, non fronde si badi bene, per dare un’idea  di maggiore e più partecipata prossimità; che  il Passero  solitario, un uccello reale che il Nostro conosce bene ed ascolta davvero, mentre la primavera d’intorno / brilla nell’aria e per li campi esulta, miri i voli spiegati dei suoi simili in uno scenario che fa ripensare a Lucrezio, quando descrive la fregola degli animali in amore; che, nella stessa lirica, tutta vestita a festa la gioventù del locoe mira ed è mirata e in cor s’allegra, nel rito collettivo finto ingenuo dello “struscio” paesano, galeotto di sguardi, pensieri e desideri erotici; che nel Sabato del villaggio  odi il martel picchiare, odi la sega / del legnaiuol che veglia… i ragazzini  in piazza a far lieto romore, e il contadino che torna a casa fischiando, il tutto per fare palpabile ed avvolgente l’atmosfera festiva; che nella Quiete dopo la tempesta si dica odo uccelli far festa; che nel Canto di un pastore errante nell’Asia sempre in prima persona si dica odo non lunge il solitario canto, del solito artigiano, manco a dirlo, e poi un canto s’udia per li sentieri: la colonna sonora che espande e rafforza l’effetto di una rappresentazione teatrale.

Biblioteca di casa Leopardi

Oltre a quello poetato nell’Infinito, nell’idillio Alla luna, in atmosfera densa di quiete e silenzi c’è un altro colle, forse il medesimo Tabor, ma ora oggetto di un’altra frequentazione, rituale e compulsiva: il Poeta soggiace a emozioni ravvicinate con conseguenze fisiche immediate: la sindrome di Stendhal che si intuisce nella “trance” dell’Infinito si conclama nelle lacrime che gli tremano negli occhi, onde si sente simile alla luna. Si concreta, alla luce morbida del paesaggio, il silenzio del luogo, che, quasi palpabile e in grado di farsi ascoltare, ora muove i ricordi più che i pensieri. Ecco, il silenzio è antitesi del suono, del quale permette, oltre che scansione, la stessa esistenza, nell’esigenza fisica dell’orecchio. C’è tanta luna in Leopardi, e se ci si potesse scherzare, potremmo definirlo un selenomane, per quanto dimostra affezioni ed inclinazioni che, sempre scherzando, diremmo da lupo mannaro.

Ma c’è qualche spazio anche per l’olfatto: era il maggio odoroso vien detto A Silvia, e con la stessa avida sensazione ci si rivolge all’odorata ginestra nel canto omonimo, finché si giunge alla vera e propria lascivia quando ci si abbandona a un’eccitazione che non rifugge dalla ridondanza: di dolcissimo odor mandi il profumo.

E a   proposito dei sensi, diciamo così, sacrificati, l’olfatto appunto, il tatto e per ultimo il gusto – che niente ha a che vedere con gli aggettivi dolce e dolcissimo sparsi ad abundantiam nel discorso del Nostro -, mi torna in mente la definizione, bislacca ma attraente di un carissimo amico fantasioso, per la quale questi ultimi sensi indicati sono sensi – paguro, perché si nascondono sotto la vista e l’udito, con i quali è difficile far peccato, per opera instancabile del Super – Io. E addirittura aggiungerei che l’estrema distillazione della carnale passione, non diluita ma concentrata nel canto in cui risuona la tentazione continua della natura, se rapportata ai momenti più quotidiani ed esposti della sua esistenza bohémienne in quel di Napoli, rivela in filigrana una sorta di originaria smaniosa insofferenza del Poeta verso ciò che mortifica gli istinti ad ogni livello, sfiorando il famigerato “maledettismo”, nella misura in cui questo è concesso a una psiche nutrita di classicità e strutturata all’insegna dell’equilibrio. Aveva, per dirla con Oscar Wilde, un brutto carattere, che è l’unico modo di averne davvero uno. Il dolore vien dopo, controllato a fatica, e cede talvolta alla rabbia, impaziente e liberatoria, malgrado poi sia causa di depressione (vedi A se stesso). Lo stesso fascino delle parole, nel loro puro suono (lontano, antico), e la sensazione dovuta alle lingue classiche, ritenute più idonee di altre agli effetti poetici, sono indice di una disposizione a priori alla carezza fisica del significante e all’uso del sogno come rimedio al fastidio di un ordinario che, ben che vada, è privo di effetti esaltanti, se non foriero di noia e insoddisfazione..

Ormai si può sperare che l’insieme di tante osservazioni possa convincere della necessità o quanto meno dell’opportunità di considerare importanti certe proposte di ricerca estetica, capaci di penetrare lo specifico e di evidenziare il vero piacere del testo vuoi dell’autore vuoi del “consumatore”, giacché l’impulso fagico dietro il quale Leopardi avvicina ed esprime il suo oggetto poetico è lo stesso di ogni soggetto umano integro nei pensieri e nei desideri.

Perché è da come avverte i propri sensi, ancor prima di esercitarli, che scorgi l’individuo in quanto tale, secondo l’impronta biologica primigenia, davvero identitaria e sottostante agli eventi che tendono a modularlo costringendolo alle acrobazie comunicative del gesto e della parola (che qui si fa canto), per incontrare quell’altrui empatia che gli compensi i vuoti dell’esistenza. Sicché, per quanto appare più carpiata e capace di esprimere l’essenziale, la ginnastica mistica della psiche più si dice poesia. Anche quando non sembri, Leopardi gioca sempre le sue carte in quest’ambito tipico obbligatorio, da cui un poeta mai può uscire del tutto ricercando il suo verso. Qui lascio la parola a chi per mestiere indaga i processi mentali, alle neuroscienze, ma mi auguro che in tutti, studiosi e no, sorga interesse e gusto a inseguire la forma come prodotto di una strategia necessaria a ordinare le reazioni ai molteplici urti del vivere, per avvicinarsi all’essenza della poesia, nel modo ora indicato che ancora pare – salvo prova contraria evidentemente – promettente e appropriato. 

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