L’invito a riflettere e a mettersi in discussione, quando si tratti dell’uso dei dialetti considerandone, segnatamente, l’espressione in poesia, rimane occasione attraente per quanto il problema è stato e continua a essere dibattuto, non solo per moda ma anche per autentica necessità culturale in tempi di estrema emergenza riguardo alla sorte dei parlari nostrani. Si pensi innanzitutto all’italiano, che ormai rimette in gioco, per chi ci creda, la storica “questione della lingua” che tanto impegnò i letterati da Dante a Manzoni, in cerca di un modello che si prestasse a tutte le istanze espressive non fosse altro che per la basilare necessità di piena comprensione fra le regioni. Non era solo questo, evidentemente, che preoccupava quegli spiriti eletti, poiché ne andava di un’identità decisiva per quanto riguardasse la fissazione di quei valori organici di cultura così palesi e tipici di una storia troppo monumentale e condivisa per non essere storia degli italiani, per non reclamare nazione e farsene immagine. E la nazione esordì proprio in questo modo, dalla passione e dalle “sudate carte” di tutti quelli che della nazione erano già portavoce inequivocabili. Tal premessa non tolga, però, attenzione all’importanza che hanno anche i vari dialetti, per fondate ragioni che in qualche modo possono somigliare a quelle espresse, qui e altrove, in pro della lingua nazionale, ma da considerarsi con giudizio che tenga conto del ruolo subordinato dei parlari locali nel quadro globale della situazione linguistica italiana storicamente affermata, consolidata e ora scombussolata da un pidgin scomposto e fuori controllo, garantito dagli ascari del computer, che attraversa le classi e raggiunge le istituzioni, producendo ministeri del welfare, spending review, green pass, smart working, booster e mille altre inutili parole, mentre figure di primo riferimento parlano come manuali per calcolatori, sempre in senso informatico, beninteso, ché ormai da sé non calcola più nessuno. E non basta, poiché l’assunzione di anglismi non necessari e ancora alieni all’udito non è contrastata abbastanza efficacemente né dalle istituzioni né da una sufficiente consapevolezza dei comuni parlanti, i quali anzi soggiacciono compiaciuti all’esempio funesto che, da più parti, inquina ed erode la lingua della nazione. Questa crescente insensibilità ai valori della lingua nazionale non può essere surrogata e risarcita dal ricorso al dialetto che in fondo, a guardar bene, risulta più una resa che un presidio verso la perdita di identità.
L’attenzione ai dialetti e a un folclore che vada di moda è indice di uno spaesamento linguistico e di una pigrizia mentale che affida alla pancia (onde si afferma, non senza ragione, che il dialetto sgorghi) il compito di sbrigare il poco lavoro che i tempi assegnano alla fantasia, allo spirito critico e all’intelligenza come espressioni di gusto e sensibilità. Su questo fatto specula, per natura, il mercato totale, dando vita a pseudo realtà culturali e forzati rigurgiti di interesse alle cose passate, come le scuole di pizzica e saltarello, concerti d’organetto e cattedre di romanesco all’università, con la Crusca che accredita petaloso. Si tratta di vero e proprio populismo culturale, poiché probabilmente a qualcuno giova spingere in basso il livello del gusto e il costume. Tutto ciò non esclude la possibilità che esista chi, in buona fede, ritenga cosa opportuna, se non necessaria ed urgente, la rivalutazione del dialetto come residua via di salvaguardia di identità locale pur capace, se interpretata e vissuta con buon senso, di rimandare ai valori della nazione. Non solo, ma anche in grado di uguagliare se non di superare la stessa lingua nel servire agli intenti della poesia. Approfondiamo allora la questione, per quanto si può fare con argomenti ragionevoli e onesti.
In ordine agli aspetti più generali e tutto considerato condivisi da un sufficiente manipolo di studiosi attendibili, basterà rimandare a quanto ho già scritto a suo tempo, mentre ora, guardando da vicino al dialetto romano, si potranno eventualmente intuire principi e tendenze più intimi dei parlari locali per quanto possano, nel largo senso, rivelarsi comuni in diversi luoghi.
Si dica innanzitutto dialetto romano e non romanesco, giacché romanesco significa “al modo romano”, “simile a quello dei romani”, come ho pure spiegato, da mosca bianca, in più di un’occasione (1), e anzi, a partire dall’affermazione del Belli stesso che lo ha studiato e promosso all’attenzione di tutti, con esco si evoca il modo più basso di intenderlo, secondo il modello plebeo di metà Ottocento di cui il poeta volle far monumento. Del resto, il suffisso riesce immediatamente a creare un elemento di rimando a un altro di cui è, per così dire, la brutta copia: si pensi a popolaresco rispetto a popolare, a militaresco rispetto a militare e così via, quando ovviamente non costituisca unica possibilità di attribuzione, come ad esempio in dantesco rispetto a Dante o in farsesco rispetto a farsa. Pure ai carciofi s’è tolta la dignità di piena appartenenza che resta intatta nel caso della pizza napoletana.
Dopo di ciò un avviso che vale sempre: il dialetto non nasce per essere scritto, e scriverlo significa snaturarlo, privarlo della stessa sua ragion d’essere, fondata sul bisogno di comprensibilità nell’immediatezza, rapidità, teatralità impressiva, che postulano l’uso convergente di più di un mezzo di comunicazione: la voce, l’intonazione marcata, la mimica facciale e gestuale, una prossemica ravvicinata.
La parlata romana rappresentata nei sonetti del Belli, romanesca appunto, diventa dialetto di portata regionale – con un processo simile (ma in ritardo) a quello di altri luoghi, almeno nel senso che anche se non parlato, è compreso e può essere finto – con Cesare Pascarella e con Trilussa, e di lì in poi si afferma, corretto e stabile, maturo per i tempi e parlato bene fino agli Anni Sessanta del Novecento, protratto per più o meno un altro ventennio nell’appropriato eloquio degli anziani. Non pare un caso che in questo lasso di tempo nascano non solo le più numerose, ma anche e soprattutto, Belli a parte, le più importanti opere in dialetto di tutta la tradizione romana, nel campo del teatro e della poesia. Accenniamo sommariamente ad alcune caratteristiche prese a caso. Il più notevole aspetto da segnalare, nel processo di formazione di questo parlare che ora si sceglie ad esempio, è l’indebolimento della doppia erre, che contrariamente a quanto per lo più si crede non è originario ma risale ai primi del Novecento e trova le prime testimonianze in Ettore Petrolini (guera, erore…) divenendo rapidamente l’unico e tipico modo di pronunciare il gruppo rr. Va però ricordato che molti, come Pascarella, Trilussa, e perfino il vicino Mario Dell’Arco, per citare i più importanti, hanno continuato ad usare la doppia erre, ma solo, stranamente, nelle parole guerra e terra. Incrostazioni belliane? Su certe cose non c’è mai certezza. Nessun dubbio, da sempre, c’è invece: sull’uso di doppie p e b fra vocali (pippa, robba…); sulla pronuncia zeta della esse fra consonante e vocale (perzona, borza…); sulla sostituzione di l con r quando la elle segue una vocale e precede una consonante (salto-sarto, falso-farzo…), la più decisiva ai fini dell’aspro effetto acustico che impregna l’insieme; sulla eliminazione facilitante della u seguita da o (cuore-core, fuoco-foco…). Infine, si rilevano differenze nella scrittura della pronuncia che in Belli già risulta assai complicata, tanto da aver richiesto la semplificazione di Vigolo e di Muscetta, ma, oltre ai diversi tentativi di riprodurre pronunce pur condivise, anche più tardi, in tutto il Novecento, troviamo altre differenze, dovute a perfino bizzarre esigenze espressive che comportano varianti lessicali come spostamenti di accento (véde e vedé…), alterazioni e invenzioni di articoli (i e li, per quanto raro ir…) mutazioni e cadute di vocali all’interno delle parole (vetturino e vitturino, orologgio e orloggio…) grafie dei verbi all’infinito (magnà e magna’…), diverse desinenze nella coniugazione (agnedi e annassi, annamio e annamo…), fino a gratuite estreme libertà (c’ha e ci ha per cià, sarpenti, piamontesi…). E tutto ciò non sempre è determinato da autentiche esigenze d’autore, giacché spesso prevale la preoccupazione di aderire a modelli già collaudati ed acquisiti da lettori e studiosi, proprio a motivo di quell’incertezza che, già intrinseca alla natura del dialetto parlato, si rafforza vieppiù nel dialetto scritto.
L’insieme delle opzioni e delle tendenze-regole qui indicate determina il carattere rude, aspramente sonoro, dell’eloquio romano, che sembra ritrarre “via vocis”, tale e quale, l’anima cinica e disincantata dell’Urbe, dando idea che chi parla in un tale modo voglia esprimere sempre un risentimento, o perlomeno un qualche malumore, in un tono nervoso se non sgarbato, per cui già Dante nel De vulgari eloquentia definì tristiloquium la parlata romana, sguaiata, sciatta e non troppo gradita all’orecchio. Questo è un punto importante su cui riflettere quando si parla dell’uso del dialetto in poesia, anche in generale, poiché i dialetti recano in ogni caso la traccia endemica di un loro circoscritto statuto.
Le premesse già paiono conclusioni. Il dialetto, e non solo quello romano, esibisce, ancora più che il diritto, la sua necessità genuina e piena solo se rappresenta l’unica lingua di cui il parlante dispone; ha natura ostensiva e non astrattiva, logica, concettuale, organica ai valori culturali della lingua nazionale, di cui resta comunque tributario pur se di solito l’ha preceduta; si presta bene alla comunicazione delle impressioni immediate e interiettive, alla facile teatralità delle emozioni del popolo culturalmente meno attrezzato, ma non si presta altrettanto adeguatamente a esigenze più alte che la poesia, intesa nella sua ampia accezione, tende ad esprimere oltre ogni restrizione linguistica e orizzonte formale di tradizione. Di qui il più severo direbbe che scegliere il dialetto quando si disponga di una sufficiente padronanza della lingua nazionale dimostri una pigrizia e un’impazienza da mettere l’autore in difficoltà se dovesse risponderne sotto inchiesta. Ma a questo punto, per recente lettura, mi viene alla mente un discorso di Eugenio Ragni (2) che investe proprio il giudizio qui appena espresso circa i limiti a priori del dialetto. Secondo Ragni il dialetto non avrebbe limitazioni nella possibilità di comunicare tutto, e fa esempi di come esso si presti perfino all’epos, un genere che comporta speculazioni profonde e richiede adeguate risorse linguistiche che al dialetto non mancherebbero. In più, dato il caso, mi affiorano alla memoria gli studi avanzati che negano ogni inferiorità della lingua parlata rispetto a quella scritta, rivendicando l’autonomia e la priorità temporale del parlato, e sostenendo che è solo un’illusione la superiorità dello scritto, dovuta solo al fatto che la scrittura è sempre frutto di una revisione che non si può applicare all’espressione estemporanea propriav del parlato. Buona occasione per esplicitare, una volta per tutte, che quando si accenna ai limiti del dialetto, applicato in poesia, non si intende stabilire difetti per così dire “ontologici”, ma relativi a trasformazioni ambientali determinanti di maggiori esigenze espressive dati i nuovi elementi speculativi e gli smaliziati e arricchiti orizzonti d’attesa. Orizzonti avvertiti, naturalmente, non peregrini. Chiarito ciò, riguardo al parere di Ragni dico che non escludo i risultati di ottima arte raggiunti in ambito epico da tutti i poeti in dialetto da lui citati – e da Mario Dell’Arco in particolare per averli ottenuti anche in ambito lirico – ma ritengo preferibili in ogni caso i mezzi offerti dalla lingua che, a parità di competenza e grazia creativa, stimolano e sostengono con più efficacia tanto il pensiero quanto la fantasia. Il rischio, proprio per la natura emotiva e sentimentale del dialetto, è sempre quello di identificarsi e compiacersi in un rispecchiamento ancestrale istintivo. Certo quando il poeta è davvero tale, può riuscire a sfondare qualunque schermo, inventando del tutto le sue espressioni (vedi Mauro Marè, non Enrico Meloni), ma allora si tratta di una terza opzione, rara e con storia a sé, un terzo parlare. In questo caso il poeta è dialettale soltanto perché parla un suo dialetto, perciò riconoscibile ed esclusivo.
Devo peraltro dire che il dialetto può presentarsi come convincente se non indispensabile soluzione quando l’ispirazione sia tanto ansiosa, tanto pressante e tanto passionale da richiedere termini ultimativi soltanto reperibili in quella specie di subconscio linguistico che conserva le ipoteche indelebili garantite dalle sorgenti fatiche locali (a chi ce l’ha), secondo il sano dettato dell’indiscusso “quanno ce vò, ce vò”, che è nato e custodito da chissà quando nell’eloquio dell’Urbe, ed è oramai onorato in tutta Italia. È successo anche a me.
Mi viene ora un pensiero ritardatario che richiama una disposizione filogenetica nella storia della nostra società: i vecchi, come tendono a ragionare con più attenzione e saggezza nel dare giudizi, così tendono a esprimersi nella lingua, temperando il dialetto laddove l’abbiano usato anche tutta la vita. È il segno chiaro di una maturità naturale di tutta la persona, corpo compreso, che indica e richiede i mezzi meglio disposti a esprimere le idee compiutamente, nello spessore e nella trasparenza di intenzioni e di umori, esibendo un sapere che, in ogni frase, si condensa e riassume. Sicuramente è utile farci caso.
La vindemiatio postula la prudenza, se non proprio il sospetto, nel giudicare l’opportunità del dialetto in poesia, sia in prospettiva critica che autoriale. Niente di più. Basterà a temperare i bollenti spiriti dei troppo eccitati cultori di alternative non sempre davvero giovevoli e più feconde?
Nota
- vedi «La traccia romanesca in Mario Dell’Arco», su Studi romani, a. LIV, 2006, n. 1-2, p. 172; e «Peripezie di un aggettivo: romano, romanico, romanesco», su Voce romana, a. III, n. 8 2011, p. 43.