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“An inspiring quote about your vision”
Your Name
Quando rilessi per la prima volta tutto l’insieme delle mie scritture, frutto delle non poche ansie letterarie a inquietarmi la vita, mi parve subito che si trattasse di una vera e accurata autobiografia, tanto più intima, dettagliata e sincera, quanto più incline alle forme della poesia. Ed è così. La mia mente è stata occupata, in permanenza e in piena cognizione, da ricordi totali tanto imperiosi da non lasciare intendere il presente, di cui mi appropriavo soltanto quand’era passato. Come ora, del resto. Il presente è impossibile a percepirsi, per una inflessibile legge della natura che impone ormai, a motivo della coscienza – chissà perché e in che modo precipitata sul puro essere vivi delle origini –, la fase detta dell’appercezione, a render già passata l’esperienza mentre viene avvertita.
È condizione propria alla psiche umana, per cui la nostra anima è destinata, e Jung lo aveva intuito, allo spaesamento e alla nostalgia. Che altro potevo pensare, potevo scrivere, se non le cose del passato intero, quello del mondo stesso che, in quanto tale, era già sempre il mio? Solo tardi ho scoperto che, in certe cose, Heidegger pure aveva ficcato il naso. Ma il mio passato, il mio avvertire il mondo, era ed è fatto di cose che, avendo una forma, la prestavano anche alle cose astratte, e tutte si mischiavano a modo loro, e unendosi creavano cose nuove, ma familiari, dando luogo a un pensiero che ne era stampo, e generava impulsi a giustapporle in nome della stessa esistenza di un mondo all’insegna di un essere assai sfuggente, ma troppo garantito dagli affetti per poterlo ignorare. E allora le ho inventate, le parole, quando nessuno me le poteva offrire non sapendo che cosa dovessero dire, creando sovente effetti fonosimbolici, e in più le ho messe in fila armoniosamente, per suono, per colore, anche per grafia: sì, proprio per la sagoma, e, messe insieme, per il contorno scritto della poesia.
Ecco i versi spostati, gli enjambement a dare scorrevolezza, e attesa di soluzione, come in musica, rendendo la lettura tanto anelante da precipitare il lettore da un verso all’altro, e tutto a cercare, nel battito regolare del ritmo appena sventato alterando l’endecasillabo, la compattezza di un testo formalizzato tanto coeso e veloce da suggerire efficacia, eleganza ed economia, a conforto di attese sempre presunte nella psiche degli affaticati e imperfetti gestori dell’empiria. Evidente espressione di un’impazienza e di un’ansia in attesa di qualche cosa da sperare per forza. Un altro inevitabile procedimento è stato il ricorrere a termini di linguaggio familiare e ruspante, se non scurrile, a irrobustire il senso del contenuto e dare vigore ai passaggi poco incisivi, di per sé troppo inerti e meno impressivi di quanto paresse utile e necessario. Come si fa col sangue dei cavalli per ottenere specie più robuste o meglio disposte a funzioni particolari. Non solo. È un modo ineludibile e appagante di mantenere attiva la scintilla di un’indignatio popolare tipica della gente romana, empatia ontogenetica maturata in seno alla cultura protestataria dell’ambiente di origine, rimasto fonte di emozioni e affetti mai sopiti nel tempo né ripudiati. Con ciò ho sparso il veleno vendicatore della puntura e della provocazione, anche quella indiretta del depistaggio, per essere certo di non lusingare il lettore, e non sottrarlo all’obbligo del ricordo di come, davvero e da sempre, stiano le cose. Umor saturnino di apota naturale, malcapitato in seno al consorzio umano. Diverso è il linguaggio, invece, necessitato dalla natura dello stesso oggetto, dalla stessa materia che si maneggia, quando le cose vogliono il loro nome per parlare davvero, nel rifiuto totale di ogni censura che altri rispetterebbe senza rispetto della propria intenzione, compromettendo in modo fondamentale tutto l’impianto e il senso della scrittura.
Queste visioni e questi procedimenti, dovuti a una Gestalt sorgiva e urgente, tendente all’equilibrio delle forme comunque intese, e l’uso di strumenti linguistici mai o poco usati nella tradizione italiana, mi sono serviti a tessere un discorso che a guardar bene, più che nei contenuti, si realizzasse nei significanti, strutturati per loro necessità, e tuttavia capaci di generare effetti metaforici funzionali. Dovevo esprimere, allo stesso tempo, l’anima popolare di prima impronta e quella sopraggiunta con la cultura, la condizione quasi petrarchesca che, impedendomi affatto la tentazione della mente borghese, mi ha sempre tenuto in ostaggio di un doppio legame, nel senso più psichiatrico della parola, fino a costringermi a distribuire e calcolare i pesi e i contrappesi capaci di infondere grazia e misura al tutto. Questo senso vorace della Gestalt, lo collego all’impronta che si intravede, con dirompente fascino e tentazione, nelle rovine dell’Urbe presso le quali sono nato e cresciuto, e che mi ha fatto complice del paesaggio, artefice di muri, orizzonti e pilastri, garante di cipressi e di oleandri, per non dire stornelli, sempre echeggianti nei silenzi austeri di cui son piene e fervono certe scene. Le mie canzonette, e la storia con lei che mi muove il sangue con la stessa potenza della città; le note chiacchierine della chitarra, nondimeno strazianti. Di qui ad assorbire ogni altra eredità ravvisata nel mito della Fenice, il passo era breve: Mediterraneo e palme, Occidente perduto.
E lungo la strada obbligata alla percezione degli oggetti reali, per come dividevano lo spazio a seconda di dove fossero messi, ed alla altrettanto energica percezione di quegli ulteriori oggetti che sono i vuoti, ovvero le distanze fra gli oggetti stessi, sempre e comunque ho dovuto sventare ogni aspetto di contenuto gnomico o descrittivo che appena si mostrasse con la pretesa di essere troppo importante rispetto ad altro, fosse anche il contrario: tutto doveva risolversi in armonia, soddisfacendo, tutti insieme, i sensi nell’eleganza della discrezione. Sopra di tutto stava l’esigenza di superare un troppo cospicuo e incalzante disordine psichico, cui occorreva il mandala della poesia. Ciò per quanto riguarda la necessità immaginifica, ma se, come mi pare, è vero ch’è il suono, insieme al ritmo che lo muove, l’elemento più tipico ed impressivo della scrittura in versi, allora ancora meglio si direbbe che abbia composto veri e propri mantra. Qui posso anche trovare una spiegazione al fatto di non essere mai riuscito a dare un titolo ai singoli componimenti, per non privarli della suggestione di cui ho sempre voluto rivestirli cercando i vari effetti della poesia nei giochi del ritmo e del suono più che nei piatti e sempre lisi dati del contenuto, inteso, questo come conduttore, spunto di base che nel suo sviluppo facesse da traliccio alla poesia. L’usignolo non titola le sue canzoni. Onde un’ineluttabile filigrana di malinconica e aspra ironia generale, che si realizza già nella stessa lingua con doppi sensi, suffissi alterati e gridati, preterizioni, formule sventanti, richiami a topoi classici e burocratici. E in questa zona non posso non segnalare l’uso di accrescitivi, spesso inventati come attributi diacritici secondo una maniera dialettale tutta romana, idiotica e confidenziale: arrivando, ad esempio. a un Texasone per dire che non c’era aggettivo adatto, sia pure accresciuto, ad esprimere tutta la volgarità riassunta già nel nome del paese. Mi pare addirittura di rintuzzare la continua pretesa delle parole che spingono a farsi scrivere per forza, mettendole in dubbio e in ridicolo nell’atto stesso di una finta obbedienza. E ciò è avvenuto, senza remissione, nella maledizione dell’intelletto e la condanna ontologica ad una fede più vana che incerta in tutte le direzioni: ipoteche sull’anima a complicare l’infelice avventura che è qui trascritta. Ma una cosa è sicura: se c’è una gloria, questa è la passione, e la poesia, o in qualche modo è canto o non è tale. Il disincanto non esclude il ruolo eccitante e vitale delle emozioni, e a dirla tutta perfino il pensiero assertivo mi pare convincente solo se espresso nella necessità del sentimento. Sempre, ovviamente, nella misura dell’arte. Alla base di tutto c’è il fanciullino, stupito, prima illuso e poi scontentato da un mondo di maschere senza né sangue, né umore. Sì che rimane il dubbio, vieppiù crescente, di scriver cose strane e fuori gioco, pervie soltanto ai vivi immaginari che chiamiamo lettori. Forse a nessuno.