ROMA E I ROMANI NEI CANTI DELLA CITTÀ

Premessa

Chiariamo in limine che, come già si è sostenuto nella nostra storia generale della canzone romana, dal momento che ormai non si canta più, si accoglie qui nella stessa categoria tutto il cantato di una tradizione, e pertanto useremo come equivalenti i termini «canzone» e «canto popolare», pur ammettendo che da diverse prospettive di studio si debba rilevare una differenza tra i due fenomeni.
Che la canzone abbia, ovunque, privilegiato e privilegi ancora come suo oggetto il sentimento erotico, e solo in seconda istanza abbia celebrato luoghi e persone diverse da quella amata, è nozione acquisita nella comune esperienza. Eppure un diffuso equivoco, cui hanno contribuito autori e interpreti discutibili anche in tempi recenti, ha fatto sì che esista la convinzione di una controtendenza della canzone romana, quasi obbligata a tessere e a sbandierare, per potersi esprimere, la lode sperticata della città e dei propri abitanti. Ebbene le cose non stanno proprio così, poiché si vedrà che tale fenomeno esiste, ma per quanto riguarda il periodo determinante a originarne l’idea di arrogante rudezza — già colta nel De vulgari eloquentia per il dialetto1 —, dura pochi anni rispetto a una lunga e nutrita tradizione di canto, e che la sua fase efficace a stabilizzare pseudologie e fantasmi nelle menti, alla metà del secolo passato si può considerare del tutto esaurita e fuori di ogni vero orizzonte di attesa, poiché non ha rilievo culturale, sia pure folclorico, la parentesi mediatica della molto imitata Gabriella Ferri che con esibizioni poco eleganti nei successivi Anni Sessanta e Settanta ha riciclato i vecchi stereotipi facendo apparire ancora più sciamannata l’immagine della canzone romana. Resta comunque da tenere a mente che la perdurante forza di suggestione di cui s’è detto, è dovuta, se non esclusivamente, soprattutto al pregio delle melodie, in grado di soccorrere le parole e far loro acquisire davanti ai semplici un valore poetico che non hanno e che talvolta addirittura offendono.

Vediamo tutto questo più da vicino. È vero — e gli esempi non servono in questo caso — che non c’è terra al mondo senza un canto che ne tessa la lode, e qui si noti bene che anche laddove si rileva una minor vocazione al canto popolare e alla produzione d’autore c’è sempre almeno una canzone a celebrare il luogo, come può notarsi, fra noi, per Milano, Genova, Torino, Venezia, Trieste, per citare soltanto le rarità più affermate, perché poi troveremmo perfino Aprilia, fondata nel 1936; e Nettuno, Genzano e chissà qual altro municipio, fino all’ultimo borgo abbastanza illuso di esser riuscito a darsi un’anima propria. Parrebbe dunque che il mito più naturale, nella funzione edonistica e fantasmatica della canzone, sia quello che dia lustro al luogo natio, accompagnato al mito dei suoi abitanti. Ma in questa universale disposizione che con più o meno discrezione conduce al compiacimento autocelebrativo, i canti romani presentano tale caratteristica all’ennesima potenza, in una cornice ambientale storicamente ben inquadrabile, ed esplicabile con una precisione filologica non concessa in analoghi contesti di musica popolare, per il coefficiente di esagerata passione autoesaltante che vi si riscontra, incomparabile con quello di qualunque altra tradizione. Questo aspetto è chiarissimo nel confronto dei canti romani con quelli di luoghi ad altissimo indice canoro quali Lisbona, Coimbra, Madrid, Parigi, e più lontano tutta l’America Centro-Meridionale, Messico in primis; vicino invece Napoli, con la quale si ravvisa una contiguità geografica, storica e psico-sociale che farebbe pensare a una qualche affinità espressiva anche dal punto di vista che qui si tratta. Ebbene, nessuna delle tradizioni menzionate reca tracce di campanilismo maniacale paragonabile a quello che si riscontra nella tradizione romana. Napoli era la città che più si prestava, e si presta, a un abbandono sfrenato nell’esprimere l’amore per la città e l’orgoglio di appartenervi, se non altro per l’intensa vocazione teatrale della sua società, eppure vediamo che il garbo degli autori partenopei sfiora ma non riesce mai a superare i limiti del buon gusto, e si direbbe pure del buon senso, nel pronunciare tutti gli affetti del caso. Probabilmente il più misurato procedere degli autori napoletani deriva semplicemente (come può dirsi degli altri ora sottintesi) da una loro media superiorità culturale rispetto ai «romani», che tali, fra l’altro, non erano quasi mai, e ciò fa pensare a una sorta di volontà mimetica, anch’essa tipica, negli stessi anni, dei numerosi meteci dell’Urbe affluenti nella capitale già dai paesi del Lazio e dall’intera penisola dopo l’unità d’Italia.

Qui è bene rammentare, ad ogni buon conto, un altro grave equivoco per il quale, grazie soprattutto al cinema e alla letteratura di Pasolini, si è fatta coincidere Roma con le sue baraccopoli sorte dopo la Seconda Guerra Mondiale ad opera di immigrati italiani, e ciò ha influenzato anche parte delle canzoni, in senso diverso da quello di cui parliamo ma certamente utile a far vedere quanto possa esser facile in forza di suggestioni e mode culturali l’affermarsi di false e tenaci immagini delle cose.

Questa che può sembrare l’introduzione a una disamina riduttiva dell’intera tradizione canora dell’Urbe, non solo non lo è perché rivela quanto sia circoscritto il fenomeno in questione, ma anche e soprattutto perché avvisa — ed è il caso di dirlo subito — che il fenomeno stesso è costituito dall’impianto del testo verbale, che ha funzione ancillare rispetto alla melodia potendo sempre esser sostituito on un altro qualunque, magari creando qualche contrasto semantico, ma lasciando inalterati il senso e la portata musicale in base ai quali si esamina una canzone. Le melodie romane meglio riuscite, ancorché non sempre all’altezza delle napoletane e messicane, si possono considerare fra le eccellenze del mondo, e questo, dopotutto, è l’essenziale, in quanto effetto principe nell’ascolto e vera parola intrinseca ed esclusiva di qualunque musica, che come tale sempre si manifesta non rivelando altro che sé stessa.

C’è una precisa catena di circostanze storiche per cui le canzoni più incontinenti hanno inciso durevolmente nell’immaginario collettivo della città. La deriva fanatica, infatti, dei canti di Roma, si avverte molto più tardi della loro prima comparsa, in concomitanza con certi eventi ma anche con lo sviluppo autonomo e naturale della città e l’affermarsi della canzone d’autore con le relative gare del San Giovanni, gl’inni delle società di divertimento, le sagre e le vecchie e nuove feste locali, tutti fenomeni del secolo diciannovesimo: dall’epoca degli umili primitivi «stornelli» quos olim Fauni Vatesque canebant (Ennio, Ann., 222)  a tutto il secolo diciottesimo non c’è un verso in canzone che accenni oltre il conveniente alla superiorità di Roma e dei romani. Si noti bene: laddove la canzone tratta a suo modo della nobiltà di Roma e dei suoi appartenenti, questa viene sentita, goduta spesso in forma comparativa: Roma e i romani sono superiori, e questo gratifica più della gloria in sé: ce n’è abbastanza per scorgere atteggiamenti di vera e propria spocchia, quasi infantile, nel novero dei canti qui posto a tema. Ma c’è di più: spesso il modo di intendere il valore personale e comunitario dei quiriti è assai volgare, legato alle gozzoviglie, alle bevute e agli umori impazienti, alla capacità di seduzione erotica e alla più vieta retorica degli affetti familiari, e il famigliare principale è Roma. È il distillato in musica dell’immaginario fascista che permea davvero l’animo degli italiani, con il rimando al bullo primigenio, terribile ma giusto, violento ma generoso, e per ciò funziona.

La parentesi laudativa a priori, cioè priva di qualunque relazione con fatti politici o sociali che potrebbero offrire al momento un motivo valido, si apre con l’istituzione del primo concorso di San Giovanni, nel 1891, preceduta da canti di umore politico del periodo della Rivoluzione Francese, di Napoleone, dell’elezione di Pio IX e della Repubblica Romana in cui si scorge qualche tinta spavalda per la maggiore energia dei testi verbali rispetto ai numerosi precedenti che pur erano nati in situazioni altrettanto sgradevoli e preoccupanti. Nell’ordine, facciamo qualche esempio:

 

Serenata tra Peppe Monticiano e Meo Trasteverino

Camillo Fiorentini detto Cacarone,
cantastorie
. . . . . . . . . . . . . . . .
Me sò fatto un cortello genovese
che ce sbucio le porte de le case
figurete la panza d’un francese
. . . . . . . . . . . . . . . .

Alessio Tarantoni, cantastorie cieco
(1846), dopo l’elezione di Pio IX:
Oh dio! Oh dio!
Tutta l’Italia è un gran pollaio ov’io
nun ce sento cantà che: Pio! Pio!

 

E al tempo della repubblica, dopo la battaglia del Gianicolo:

Ciavemo Garibbardi,
ciavemo Calandrelli,
‘sti manichi d’ombrelli
nun sò potuti entrà;
l’emo respinti indietro,
nun ponno aritornà.

 

In questi canti emergono i primi segni di un impegno politico dei cittadini, certo affidato agli umori più viscerali, ma pur sempre dovuto a partecipazione che conferisce ai canti una certa baldanza. Nulla di ciò s’incontra in altri tempi di passate alluvioni, invasioni straniere e sanguinosi tumulti nella città, laddove i canti appaiono sempre espressi in toni anche accorati ma temperati, se non sommessi, e quindi più eleganti e convincenti. Qualche tono trionfale si avverte dopo l’unità d’Italia che dà origine alla Seconda Roma, tornata a grandezza e nobiltà civile dopo gli anni foschi del potere pontificio, ma i canti del periodo sono più che altro ispirati alla lode della monarchia, ben comprensibile nel clima di sviluppo e di rifondazione del momento:
sono piuttosto i versi di Zanazzo e qualche stornello salace del Sor Capanna a mettere in luce il non riconoscimento dell’italianità-romanità dei piemontesi, sorprendenti e derisi nei loro usi, soprattutto nel modo di esprimersi cispatano, come si indicava ogni dialetto che apparisse buffo solo perché diverso, tanto più se incomprensibile.
Accingiamoci ora a descrivere il colmo del sentimento, diffuso in vario grado nella storia, della noiartrità, parola di conio geniale usata dal poeta Mauro Marè, per indicare la disposizione locale a sentirsi migliori, in tutti i sensi, un termine che allude alla detenzione attuale o potenziale di ogni primato, per cui non basta dire «noi», ma bisogna dire, e si dice, «noiartri», cioè noi diversi, sottintendendo il tratto nobilitante di una scontata, ormai quasi biologica alterità, attinta da chiunque sia nato a Roma.
Nell’arco della prima metà del Millenovecento, inizia, si afferma e con qualche strascico sfuma e scompare la fase virale della canzone romana, quella che lascia la traccia più duratura nella memoria e nel gusto dei praticanti per passione o mestiere, insomma proprio quella che, si diceva, sarebbe stata causa della convinzione di un tratto negativo peculiare e diffuso nella canzone romana, espressione di tutta la presunzione di un popoletto illuso di meritare per nascita il rispetto dovuto al lignaggio storico della città, anche questo ostentato a ogni piè sospinto. E basta un solo nome ad evocare l’intera epopea cantata di Roma e dei romani, che espone a un tempo icone antiche e moderne, consoli lavandaie e carrettieri mischiati insieme nell’empito delirante di un cantare spiegato. È Romolo Balzani, massimo bardo in veste di cantautore, inventore di una linea musicale nuova e irruente, caldissima, che ne stigmatizza le canzoni pervadendole d’enfasi sentimentale. Su questa linea nascono molti canti fra i più frequentati e apprezzati della tradizione, in virtù di melodie epocali, fedeli allo spirito del tempo che le necessita, ed è per questo tratto di baldanza estetica che hanno occupato tutto l’immaginario degli appassionati, affascinati dalla gloria spuria propagandata dal regime fascista proprio in quelle maniere che si ritrovano nelle canzoni.

Balzani giganteggia in creatività, scrive da paroliere e da teatrante e, quando non riesce autore integrale, ha il pronto soccorso in parola che gli è congeniale da parte di amici chiamati a collaborare. Balzani non ama il Fascismo più di ogni altro, anzi in qualche occasione se ne burla, allora si dirà che più che un fascista è egli stesso un fascismo, giacché trae ispirazione intensa
e sincera dall’esperienza storica che vive: ciò salva l’attendibilità comunicativa delle sue esagerazioni. Nel clima, eccitato e vissuto in condivisione, dell’Italia fascista, ansiosa dei primati d’ogni genere che il regime assicura, si possono ordinare i contenuti verbali delle canzoni: l’identificazione della Nazione con la città di Roma; la viscerale passione per le bellezze dell’Urbe, monumentali, naturali e urbanistiche, che non ha bisogno di specifica esemplificazione, perché riscontrabile in ogni canzone del tempo; la gloria antica che riemerge intatta, gestita dai romani del momento, eroi per destino; la capacità ineluttabile di inculturazione municipale; la nobiltà regale dei sentimenti di generosità, accoglienza e onestà varia, ma sempre vigile e
capace di reagire alle offese; l’amore per la patria, la famiglia, il lavoro; infine la sconcertante passione per l’abbuffata, celebrata nei modi più grevi e imbarazzanti con il vanto speciale di una digestione agevole e perfetta, tanto che, fra le società di divertimento, se ne registra una denominata De li corpi sicuri, fondata nel 1912 all’osteria der Matriciano al quartiere Trionfale.
Citiamo, dunque, alcune delle canzoni più espressive di ciò che si è sostenuto, scelte ovviamente fra le più riuscite sotto il profilo specifico musicale, quello che dopotutto ne ha determinato il successo e la dignità di memoria. Dalla lettura dei seguenti versi sarà facile ravvisare i caratteri registrati.
L’esaltazione di Roma capitale soprattutto in occasione del cinquantenario dell’Unità:

 

Pensieri de le rondinelle

Giulio Cesare Santini,
1911
Rose e verbene,
noi semo rondinelle ignorantone…
ma si l’Italia, qui, se vede bene,
vordì che Roma è tutta la Nazione!

Sul versante del sensuale attaccamento al genius loci laziale e dell’ebbrezza di una felicità indotta dalla corrispondenza fra la bellezza prorompente della natura e l’urgenza espressiva dei canonici affetti umani:

Er carettiere a vino

Romolo Balzani,
1928

All’arba quanno spunta er sole d’oro
rivedo Roma bella da lontano,
se sente cantà quarche rusignolo
e ‘na campana sona piano piano;
me sento ‘n’armonia qui drent’ar petto
e tutt’alegro monto sur caretto.
Roma fiorita,
e l’aria che tu manni è profumata;
me sento qui ner petto ‘na ferita
che m’ha lassato Nina mia adorata.
E quanno er sole sur tramonto cala
senti quer venticello de la sera;
le stelle co’ la luna fanno a gara
pe’ risvejà er profumo de la tera;
li sonarelli che ciò sur caretto
dicheno «a Nannarè, và co Ninetto».
Fiore d’amore,
ce sò tre cose che je vojo bene:
mì madre, Roma e tu, Nina der core.

Questa canzone è fra le meno sbilanciate del genere, ma è tipica per l’enfasi che gronda dalle parole, vergate a caldo con non troppa cura e pur accattivanti per il sincero, lirico e trasognato invasamento di cui sono intrise. Intorno all’amore per Roma, impersonata e fatta coincidere con gli affetti di casa, e a proposito del puntuale fallimento di chi, per qualunque motivo, si allontani dalla città:

Passione romana

Balilla Lupi-Romolo Balzani,
1928

Buttato su la strada der destino
senza ‘n affetto, un bacio, e ‘na carezza
girava pe’ l’urione un regazzino
co’ l’occhi belli e pieni de dorcezza.
Lo proteggeva ogni trasteverino
e lui cresceva pieno de bontà.
L’unico bene suo, sogno adorato
era pe’ Roma sua dov’era nato;
quanno a la sera s’addormiva er monno
Roma lo cunnulava in braccio ar sonno.
Se fece giovinotto e a diciott’anni
una straniera se lo portò via,
scordannose le pene co’ l’affanni
vivenno in mezzo ar lusso e l’allegria.
Così ner cambià vita cambiò panni
ma er core suo romano nun cambiò.
Perciò a le vorte ner trovasse solo,
triste er penziero suo spiccava er volo
verso de Roma sua l’antica fiamma,
verso de Roma sua che je fu mamma.
Ma lei ‘na sera, rossa dar dispetto,
je offese Roma piena d’albagia
e lui je lo rispose chiaro e netto:
«Chi offenne Roma, offenne mamma mia.
Tu sei signora e io sò un poveretto,
però ‘sto core è ricco più de te.
Credi che chi cià l’oro sia ‘n signore,
l’oro pe’ me nun conta, conta er core.
Tu sei signora e vivi in mezzo all’oro,
io preferisco a vive de lavoro.» Così tornò pentito ar Cuppolone
scordannose de tutto er lusso e amore,
scordannose de tutto er lusso e amore,
perché un romano nun se venne er core.

C’è poi l’ecumenismo inculturante, magnanimo e ineluttabile, dovuto ai sentimenti di umanità, sincerità e rispetto sfoggiati con ingenua insistenza. Si noti qui l’abuso particolare dell’aggettivo «sincero», il più diffuso nelle lodi dell’anima romana: perfino il sangue, come se fosse vino, è puro e più sincero di quello altrui.

 

Sò questi li romani

Bixio Cherubini-Enrico Palatta,

1927

Quanno s’addormeno fra le ninne nanne
li pupi belli abbraccicati a mamma,
ar cabbarè se sona er giazze banne;
puro la coppia a’ rittimo se ‘nfiamma.
Neppure se conoscheno che l’amicizia è fatta
li cavalieri attasteno, la dama ce s’adatta,
«Scusi ma lei è di Roma?»: è ‘na buatta.

Danzomanìa
nun è la gioventù de Roma mia.
Le ciumachelle stanno a casa loro,
er fidanzato stracco dar lavoro
le bacia come un angelo
sur viso immacolato,
poi l’accarezza su la testa bionna:
pare d’avé baciato la Madonna.
La sposerà domani.
Sò questi, sò questi li romani.
Arde ‘na lampena sopra ‘n artarino
co’ ‘na fiammella che la smorza er vento,
‘na monichella che sta là vicino
l’accenne e la rismorza co ‘n lamento:
«Signore mio, sarvatela, è giù ne la corsia,
è tanto bella e giovane, nu’ la portate via,
è sposa e madre, è pure in agonia.
Pare un lenzolo,
ce ne vorebbe un goccio, un goccio solo
de sangue generoso, sangue puro
pe’ faje arivedé ‘sto celo azzuro» …
quann’ecchete er miracolo:
un omo scamiciato
s’avanza co’ du’ braccia come er fero
dicenno «qui c’è er sangue più sincero,
svenateme ‘ste mani!».
Sò questi, sò questi li romani.
Dicheno all’estero ‘ste linguacce amare
che Roma nostra è tutta ‘n’anticaja;
in verità ce sò le cose rare,
ma come popolo è un popolo canaja.
Leggheno sur giornale li fatti de cortello,

e l’episodi celebri de lima e grimardello,
e perciò ar monno manno ‘sto stornello:
còri sinceri,
venite tutti a Roma, forastieri,
venitece da tutte le nazione
ma quanno che passate pe’ l’Urione
‘ndove ce sta ‘na lapide
co’ tanti e tanti nomi
fermateve e levateve er cappello,
lì sò l’eroi der Piave e der Montello
che dormeno lontani.
Sò quelli, pure quelli sò romani.

 

Sull’orgoglio di mestiere, il sentimento di essere elemento tipico ed essenziale del paesaggio, icona prima di riferimento nel pensiero di Roma.

 

Carettiere romano

Giuseppe Micheli-Agostino Rossi,

1939
. . . . . . . . . . . . . . . .
Er carettiere è un nobbile romano
e ar monno ormai nun c’è chi nu’ lo sappia,
fai cento strade ma si pensi all’Appia
tra un pino e un acquedotto vedi a me.
. . . . . . . . . . . . . . . .
Sò carettiere e nun vedo nissuno
e li barili me pareno un trono.

 

Un compendio esaustivo: l’elogio dei doppi romani (i trasteverini), sinceri, generosi, pronti a sventare ogni insidia; dell’appetito inteso come virtù; dell’improbabile radicalizzazione di donne forestiere negli usi maschili dell’osteria romana:

 

Fiori trasteverini

Romolo Balzani,
1950
De li giardini semo li mughetti,
semo romani e in più trasteverini,
nun è pe dì, semo li più perfetti,
cantamo tutti e semo ballerini.
. . . . . . . . . . . . . . . .
‘gni tanto ‘na magnata e ‘na bevuta
e tutto quanto er resto viè da sé.
Semo romani, trasteverini,
semo signori senza quatrini,
er core nostro è ‘na capanna,
core sincero che nun te ‘nganna.

Si stai in bolletta noi t’aiutamo,
però da micchi nun ce passamo:
noi semo i magnatori de spaghetti,
de le trasteverine li galletti.
. . . . . . . . . . . . . . . .
Famo li pranzi mejo de Nerone,
bevemio er vino co’ la cunculina,
‘n abbacchio in quattro te lo fai benone
e p’antipasto ognuno ‘na gallina.
. . . . . . . . . . . . . . . .
Le milanesi co’ le toscane
se ‘mpareranno a parlà romane,
se chiameranno «viè giù Marietta,
s’annamo a beve ‘n’artra fojetta».4
La veneziana, ch’è fumantina,

la chiameremo cor nome Nina,
e le baresi e le napoletane
lassatele passà ché sò romane.
. . . . . . . . . . . . . . . .

Un delirio di credenziali sciorinate con l’ossessiva rassegna di personaggi storici utilizzati, sia pure scherzosamente, a promuovere la propria identità di cittadino dell’Urbe:

 

Tutti romani

Romolo Balzani,
1957

Sò romano veramente e me ne vanto,

sò romano purosangue e sò contento,
. . . . . . . . . . . . . . . .
Sò romano e ve lo dico chiaro e tonno
e de questo sò sicuro e sai perché
perché er nonno de mi nonno aveva un nonno
che giocava co’ Nerone a garaghè.5
Giulio Cesare, Caligola e Pompeo
li conosco tutti quanti a menadito,
poi Scipione l’Africano è garantito
da regazzo è stato a scòla insieme a me.
. . . . . . . . . . . . . . . .
Sò romano e quindi sò conquistatore
sia ner campo battajero che in amore,
ciò un cuggino che faceva er gladiatore:
come vedi nun c’è artro da spiegà.

Fra i canti anonimi il famigerato La società dei magnaccioni, probabile inno, ai primi del secolo scorso, di un’omonima società di divertimento, che già dal titolo desta fastidio, ma che sembra raccogliere, per gli ignari, tutto il modo di intendere la vita di quelli che ancora si credono i «veri romani», e invece sono solo i «romaneschi», caricature della gente dell’Urbe. Ne citiamo dei versi invasati: un rito tribale:

La società dei magnaccioni

Fatece largo che passamo noi,
li giovanotti de ‘sta Roma bella,
e le regazze famo innamorà…
. . . . . . . . . . . . . . . .
Ce piaceno li polli,
l’abbacchi e le galline
perché sò senza spine,
nun sò come er baccalà.
La società dei Magnaccioni,
la società della gioventù,
a noi ce piace de magnà e beve
e nun ce piace de lavorà…
. . . . . . . . . . . . . . . .
E si pe’ caso la socera more
se famo du’ spaghetti matriciani,
se famo ‘n par de litri a mille gradi,
se ‘mbriacamo e ‘n ce pensamo più…
. . . . . . . . . . . . . . . .

E un analogo mantra da osteria, conservato fino ai Cinquanta scorsi, del cantastorie Francesco Calzaroni, ai tempi di Roma restaurata dopo la Repubblica:

 

Sciampagna de Peppe er Duro

Ragno, ragno, ragno,
tanto m’abbusco e tanto me magno,
don, don, don,
sò pollastri e maccaró.

 

Sarà opportuno qui sottolineare che l’avvincente, solida e duratura tradizione della scampagnata, la gita «fori porta» ben celebrata nella nota canzone ‘Na gita a li Castelli di Franco Silvestri (1925), con conseguente abbuffata e sbornia cantante, non va interpretata come eredità delle epule antiche, perché il popolo romano era famoso per la sobrietà dei costumi alimentari e la disposizione al lavoro («buon soldato, buon agricoltore», si diceva dei cittadini apprezzati): si tratta piuttosto della volontà di riscatto delle classi più umili, che ad altro non possono aspirare, compensando quando appena possibile con il piacere sporadico della gola le frustrazioni e i vari sacrifici. Semmai il riferimento più appropriato va ricercato nel motto panem et circenses cui i governanti avevano abituato i romani, corroborando il temperamento aggressivo di un popolo dominante che riguardava anche l’ultimo dei plebei. D’altronde tale aspetto pagano, rafforzato dal complesso dei
miti ottocenteschi e fascisti, espone la sua massima espressione nelle gare gastronomiche care alle società di divertimento, di cui restano tracce documentate, certo a loro modo, come quella avvenuta nell’estate del 1919 tra «er Cafabbio» e un certo Menotti, vinta dal primo, il cui menù, incredibile, non riportiamo per rispetto allo stomaco del lettore.

Un’altra osservazione consente di individuare una base di razzismo, inevitabile in clima nazionalistico erede del complesso storico di superiorità morale e civile già teorizzato dal Gioberti, e di aggiunte pretese coloniali fin dalla prima campagna di Abissinia e soprattutto dopo la sconfitta di Adua (1896). A tal proposito si possono ricordare due stornelli del Sor Capanna dedicati ai generali Oreste Baratieri e Antonio Baldissera:

… O Baratieri, nun te fidà de queli musi neri.
… O Baldissera, nun te fidà de quela gente nera.

 

E poi, fra filastrocche goliardiche e bombacè occasionali del Sor Capanna, alquanto effimeri malgrado l’immediata presa pubblica, un pezzo emblematico sia del complesso di superiorità romana, ora riflesso sull’Italia intera, che del mito della civile accoglienza e della garantita integrazione mutuato dall’ecumenismo balzaniano: Faccetta nera, canzone di immediato travolgente successo, e per il contenuto delle parole e per il tratto marziale della melodia, che fu addirittura adottata come inno ufficioso dalla Divisione Folgore.
Una bella canzone:

Faccetta nera

Renato Micheli-Mario Ruccione,

1935
. . . . . . . . . . . . . . . .
Faccetta nera,
sarai romana,
e pe’ bandiera tu ciavrai quella italiana:
quanno saremo vicino a te
te porteremo avanti ar Duce a avanti a’ Re.
. . . . . . . . . . . . . . . .

Le melodie migliori del periodo che va dal 1926, momento delle prime composizioni di Balzani, al 1957, momento delle ultime dello stesso, recano tutte una traccia, più o meno scoperta, di una sorta di brio paramilitare, che affiora anche nei canti più delicati, sempre filigranati di un’impazienza che lascia intravedere, malcelata, la vera e propria smania sensuale e fagica verso cose e persone. È «l’effetto Balzani», perseguito e imitato, onde la compagna lo richiamava spesso e volentieri per il fatto che andasse insegnando a tutti «a fare le canzoni come si deve».

L’insieme delle critiche fin qui mosse alla canzone romana del periodo fascista, in ambiguo equilibrio tra il massimo valore della musica e del massimo soggiacere delle parole a emozioni sospette, non impedisce ora di elaborare una pars construens che vogliamo impostare con un quesito: a parte la stucchevole piaggeria dei testi verso tutta la società del momento, non a caso riscontrabile anche nelle canzoni in lingua a carattere nazionale, non si può intravedere un’autentica base ancestrale nei lisi temi usati nelle parole e l’elogio dei vizi elevati a virtù? E non potrebbe, questa, anni-
data profondamente al centro di una psiche carica di fantasmi, aver inciso anche nella più alta qualità e proprietà delle melodie? In ambo i casi la risposta è sì: quando si espone il cadavere di certe nonne, come ironizzò Joyce, la moderazione è difficile. In fondo i canti in causa raccolgono e restituiscono a tinte forti, ma senza aliene invenzioni, una mentalità maturata nei secoli che dà adito a fede e comportamenti, che quando intensamente condivisi già per loro natura giungono a forme eccessive, e stabilizzano la convinzione di un pregio di sé che a Roma, niente affatto di nascosto, vive ancora alleata allo scetticismo. Del resto per quanto attiene all’aggressività già Baldini rammenta che «Roma cominciò subito con un atto di violenza e di malagrazia», citando anche il Belli nel verso «bono assai l’abbozzà, mejo er cortello», e parla di «razza» ante litteram, fuori Fascismo, concludendo che «nessuna disdetta o fusione di sangue poterono mai domare, mai temperare quella naturale protervia», per cui la Weltanschauung di Balzani può dirsi addirittura la correzione musicale di una visione selvatica della vita propria all’irriverente e indocile plebe belliana che al tempo ancora vige nella città, introducendo toni affettuosi, inviti solidali, intese ragionevoli nelle parole delle sue canzoni, tési a un qualche equilibrio delle emozioni, quando ovviamente non si tratti di pranzi o valori essenziali dell’etica rusticana.

Ma va detto che anche quest’elemento apparentemente controtendenza non prescinde dal doppio binario, cinico e nel contempo perbenista, dell’Italia voluta da Mussolini, fattrice di invincibili guerrieri, ma anche «di navigatori, di poeti e di santi». E tanto ci ha ispirato una canzone in cui abbiamo cercato di conciliare carezza e impeto, distribuiti, per quanto amore chieda e umore permetta, in ambedue le parti costitutive di un canto consapevole e realista:

Nun semo tanto boni

Sangiuliano,
2006

Nun semo tanto boni come se dice,
ma manco è vero che a lavorà ‘n ce piace:
se c’è ‘n destino che ce mette in croce,
nun ce passa la voja de cantà…
E mentre che uno sòna e quell’artro canta,
pé sapé chi è più infame ce vò la conta,
ma c’è sempre un motivo pé fa finta
che er mejo posto ar monno è ‘sta città.
Sì, c’è un motivo, tanto motivo,
io nu lo so ma ce sta:
me n’accorgevo quanno venivo
de corsa qui a rifiatà.
Ero partito, nu’ lo sapevo
quanto potevo soffrì,

e m’aggitavo co’ quer pensiero
de ritornà a vive qui…
Nun semo tanto boni come se dice
ma a tutti mamma Roma ce fa così.
Me dici come fai mó a annà all’Acqua Santa
a fà l’amore ar prato ‘n mezzo a la menta:
solo er ricordo te po’ dà ‘na spinta
pe’ dì ch’è ancora tempo de sognà;
e sogna sogna er tempo te se consuma,
mentre pare che gnente vale la pena:
se sa che qui se stanno a magnà Roma,
e nessun canto la potrà sarvà.
Però un motivo, tanto motivo,
se riesce sempre a trovà,
p’avé rispetto d’ogni difetto
che ce po’ avé ‘sta città.
Io ciabbitavo, nu’ lo capivo
prima d’annamme a ‘fognà

che gira gira, senza ‘na lira
era la felicità…
Qui nun se vede luce, nun c’è più pace,
però si lasci Roma ce pòi morì.

Oggi naturalmente sarebbe impropria, sotto tutti gli aspetti, a parte lo studio, la riproposizione di certi temi nelle forme naїf care al passato, malgrado il perdurare della boria campanilistica dei romaneschi, se non altro perché non si canta più e la stessa immagine fisica e morale della città eterna è offuscata da guasti irreversibili: il solo mezzo in grado di qualche cura, ridando alla città il sostegno dei suoi più attendibili miti, potrà soltanto essere la cultura attenta e illuminata di filosofi e artisti capaci di riabilitare e inventare i valori umani a nuova e conveniente misura storica.

 

 

 

 

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